giovedì 11 settembre 2025

Diritti e Doveri universali Vs nazionalismi e imperialismi

Bandiere palestinesi sotte le Due Torri e sotto la pioggia: il dovere della solidarietà ...










I problemi e le contraddizioni del mondo o interni ad ogni comunità si possono risolvere solo attraverso lo studio, il confronto politico, l'impegno a ricercare e praticare giustizia sociale e conversione ecologica. Ogni scelta di riarmo e di guerra produce nuove tossine, chiusure e reazioni tribali che alimentano la spirale di insulti, terrore, propaganda e minacce che già pervadono gran parte delle classi dominanti e del potere politico, economico e finanziario. "Raid in Polonia, Putin sfida la NATO" e "L'attacco di Putin in Polonia" titolano i due più diffusi giornali italiani. "Droni russi sulla Polonia. Mattarella: come nel 1914" annuncia il Quotidiano Nazionale - Il Resto del Carlino.

Cosa spinge anche il Presidente della Repubblica italiana, uomo tenacemente misurato, moderato e Democratico, a interpretare questo "fatto" come elemento di tanta gravità e preoccupazione? In fondo molti altri "fatti" sono presenti o si sono analizzati in questo decennio con ben maggiore prudenza, approfondimento ed attenzione: ad esempio quando "incursori" ucraini (oggi a giudizio in un Tribunale della Repubblica italiana) hanno fatto saltare il gasdotto russo - tedesco - europeo Nord Stream; quando Israele ha rivendicato bombardamenti in territori altrui, con vittime civili e riconosciuti diplomatici; oppure quando Netanyahu, ministri del suo Governo ed altri Capi di Stato minacciano e adottano sanzioni contro rappresentanti delle Nazioni Unite o colpiscono con azioni intimidatorie missioni internazionali umanitarie e pacifiche, come la Global Sumud Flotilla.

La verità è che a forza di letture unilaterali e interessi di parte si restringono i momenti di comprensione ed analisi oggettiva. Ogni avvenimento è usato (e a volte costruito) a sostegno di tesi preconfezionate o di ideologie che non si rapportano ai processi reali.

Commenti e giudizi non vengono dati con lo stesso metro di valutazione e una stessa bilancia. Dipendono di volta in volta da protagonisti e valutatori. 

I diritti dei popoli e delle comunità valgono diversamente se sono considerati amici o no, se sono alleati, competitori o, peggio, avversari e nemici. Le terre, le proprietà vanno difese ad ogni costo, "cm. su cm." per dirla con il Segretario Generale dell'Alleanza Atlantica Mark Rutte, se "nostre". Diversamente, sono violabili e considerate obiettivo di conquista se "di altri".

Chi negli anni passati ha provato a contrapporre "autocrazie" e "democrazie" ha abbandonato la tesi. 

Contraddizioni esplosive riguardano oggi i diversi sistemi politici e sociali presenti. 

Roberto Della Seta scrive "L'antidemocrazia. Netanyahu e l'autobiografia di una nazione" (vedi sotto). Mattia Zaccaro Garau propone "Israele - Italia e ritorno" una riflessione su calcio e società "sfide mondiali al tempo del genocidio. Una doppia morale tiene in gioco la nazionale di Tel Aviv. E il calcio israeliano (a cui magari ci affidiamo per avere gli "Azzurri" ai prossimi Mondiali 2026) è sempre più all'italiana". Spunti assai utili ed interessanti (leggi sotto) per entrare dentro i problemi, le complessità e l'interdipendenza di mercati e processi, situazioni e soluzioni.

Non mancano altresì analisi su evoluzioni ed involuzioni negli Stati Uniti d'America di Donald Trump (che ha deciso di trasformare il Ministero della Difesa degli USA in Ministero della Guerra!!!) e di Joe Biden (che ha alimentato la retorica di "guerre vittoriose") e in piccoli e grandi Paesi dell'Europa e della Unione Europea, con la crisi e le tendenze che cambiano il Nord e l'Est del Vecchio Continente, l'Inghilterra, la Germania di Friedrich Merz e la Francia di Emmanuel Macron. Oggi, serve a tutti alzare lo sguardo, uscire da un provincialismo povero di prospettive e da anguste dimensioni nazionali che non contribuiscono affatto a costruire dialogo, movimenti di lotta e ponti verso il cambiamento. Al contrario. E' un nuovo impegno, per discutere di più di Diritti e Doveri universali nel mondo degli anni '20-'30-'40 di questo secolo. Qui, solo per partire, le considerazioni di Barbara Spinelli sul "re dei supponenti e la cecità totale dell'Eliseo" in un articolo pubblicato su il Fatto Quotidiano.

Inoltre un contributo critico e propositivo viene da Emiliano Brancaccio che, su il manifesto, scrive "Uguaglianza. Un progetto economico alternativo".

Mentre Micaela Frulli su "Diritto internazionale" propone "Assedio illegittimo, romperlo è un dovere". Un appello attualissimo alla solidarietà ed alla partecipazione.

   

L'antidemocrazia. Netanyahu e l'autobiografia di una nazione di Roberto Della Seta 

Altro sangue sulla terra di Palestina, che si chiami Israele o Cisgiordania o Gaza. L’ennesimo massacro di civili, questa volta cittadini israeliani che viaggiavano su un autobus a Gerusalemme, aggiunge altro dolore alla colata di morte e di sofferenza che scorre da quasi un secolo «dal fiume al mare», dal Giordano al Mediterraneo. Aggiunge poco o nulla invece a un’analisi minimamente lucida e onesta dell’abisso definitivo in cui lo Stato di Israele è precipitato da quando ha deciso – lo Stato, non solo il governo – di “ripulire” Gaza e annettere buona parte della Cisgiordania.

Un parallelo con la storia italiana può aiutare in questo sforzo di comprensione. In un articolo del novembre 1922, Piero Gobetti battezzava il fascismo appena giunto al potere con una formula che diventerà celebre: «autobiografia di una nazione». Giudizio opposto darà Benedetto Croce dopo la Liberazione, qualificando il ventennio come «eccezione» infelice e tragica, ma un’eccezione, nella storia d’Italia.

La metafora gobettiana si adatta bene a definire l’estrema destra di Netanyahu, dei suoi ministri fascisti e razzisti: non un’eccezione, molto di più un’autobiografia del Paese-Israele.

Da quando comincia l’autobiografia? Lasciando pure da parte la storia complessa e per molti aspetti contraddittoria del primo sionismo, la cui ambizione di creare in Palestina un «focolare nazionale ebraico» recava certo un’impronta colonialista ma rispondeva anche all’urgenza di liberare gli ebrei europei da secoli di persecuzioni destinate poi a esplodere nella Shoah, si può farla cominciare con la guerra dei sei giorni del 1967.

Da allora Israele non è più una democrazia: è anti-democrazia governare, ormai succede da sessant’anni, su milioni di abitanti palestinesi nei territori occupati cui è negato il diritto di votare per i loro rappresentanti nel parlamento di Gerusalemme, ed è anti-democrazia praticare forme evidenti di apartheid, di discriminazione civile e sociale anche verso altri milioni di cittadini arabo-israeliani.

L’Israele di Netanyahu e del genocidio a Gaza è una catastrofe, lo è prima di tutto per il popolo palestinese, ma come l’Italia di Mussolini non è un’eccezione, un epifenomeno. Semmai Netanyahu è l’incarnazione massima di un Paese perduto, il cui «suicidio» – citando il titolo perfetto dell’ultimo libro di Anna Foa – ha radici antiche.

I segni di questo lungo cammino di imbarbarimento della “nazione” israeliana sono oggi evidentissimi. La guerra di annientamento del popolo gazawi è opera diretta di Netanyahu, ma sarebbe impossibile se i vertici militari, buona parte dei media (qui è da sottolineare una preziosa eccezione: il quotidiano Haaretz), lo stesso presidente della repubblica non vi collaborassero più o meno attivamente. Forse ancora più desolante è il tasso minimo di indignazione per i crimini sistematici commessi a Gaza nella società israeliana. Parole indignate e disperate sono venute da voci autorevoli della cultura israeliana e da piccoli gruppi militanti che da sempre si battono per i diritti dei palestinesi, ma risuonate assai poco nel corpo sociale di Israele, anche nella sua parte «progressista» e nelle stesse manifestazioni antigovernative di queste settimane: invocano le dimissioni di Netanyahu non per fermare il genocidio in atto, ma solo – non è poco, non può essere tutto – per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.

Più d’uno in questi mesi ha letto nella degenerazione ultranazionalista di Israele la traccia inequivocabile di una sorta di fallimento morale del progetto dello «Stato ebraico» legato a un suo peccato d’origine. Così Stefano Levi della Torre, che ha dedicato studi importanti alla storia dell’ebraismo. Per Levi della Torre, una frattura concettuale divide l’ebraismo della diaspora dall’identità di Israele.

L’ebraismo, ha scritto in un saggio pubblicato sulla rivista Studi bresciani (n. 1/205), «per più di duemila anni ha elaborato una visione del mondo dalla sponda dei vinti e della minoranza», mentre il sionismo e poi Israele hanno voluto trasformare l’ebreo-vittima in ebreo-vincitore: «Ma la vittima che vince, e tuttavia conserva il carisma della vittima, non è più solo vittima ma anche vittimista. E il passaggio dalla figura della vittima a quella del vittimista denota una transizione verso destra, perché la vittima aspira alla liberazione, elabora le prospettive di un’emancipazione propria e magari universale, il vittimista elabora invece la giustificazione di un proprio potere acquisito: a giustificare non la responsabilità del potere, ma l’arbitrio del proprio potere, come se il proprio arbitrio fosse la doverosa ricompensa di chi rappresenta le vittime. Tutte le demagogie autoritarie di massa sono vittimiste. Lo è stato il fascismo, il nazismo, lo stalinismo. Da ultimo lo è Trump che si presenta vendicatore dell’America offesa».

Illuminanti queste righe di Levi della Torre. Anche poco inclini alla speranza: sembrano dire (è una mia impressione, non posso né voglio attribuirla a chi le ha scritte), che Israele come «Stato ebraico» è definitivamente perduto, che il suo suicidio non è un pericolo incombente ma un fatto compiuto.

(il manifesto, 9 settembre 2025)


Israele - Italia e ritorno di Mattia Zàccaro Garau


Forte della storica amicizia tra i due «fratelli spirituali» Viktor Orbán e Benjamin Netanyahu, la nazionale israeliana gioca tutte le sue partite casalinghe negli stadi ungheresi. Il primo ministro d’Israele potrebbe anche presenziare a ogni sfida al Nagyerdei Stadion, vista la disponibilità a ospitarlo in Ungheria, come fatto negli ultimi mesi per rinsaldare gli accordi bilaterali tra i due governi – in barba al mandato di arresto spiccato dalla Corte penale internazionale (che, infatti, Budapest ha deciso di abbandonare).

Ma ieri, comunque, Bibi allo stadio non c’era quando, sul neutro di Debrecen è andata in scena l’andata tra Israele e Italia valevole per le qualificazioni europee ai prossimi Mondiali negli Stati Uniti. Come non ci sarà il 14 ottobre a Udine quando, malgrado richieste di annullamento e imbarazzi vari, andrà in scena il ritorno.

TUTTAVIA LA FEBBRE, affatto calcistica date le prospettive comunque desolanti di una nazionale italiana ancora in via di guarigione (ieri si è imposta per 5-4 alla fine di una partita infestata di errori), è destinata a salire ancora. A nulla sono valse le parole del sindaco della città friulana, Alberto Felice De Toni, che ha chiesto ufficialmente il rinvio della gara o del presidente dell’Assoallenatori, Renzo Ulivieri, che ha addirittura suggerito il boicottaggio di Israele e la sospensione delle sue nazionali dalle competizioni sportive. E l’impressione è che a nulla serviranno i nuovi appelli che di certo si susseguiranno nelle prossime settimane.

La pietra tombale sull’argomento l’aveva già posta il ministro per lo Sport e i Giovani, Andrea Abodi. Qualche settimana fa, sollecitato sul fatto che si potesse serenamente giocare contro la nazionale israeliana al contrario di quella russa, squalificata da oltre tre anni, aveva svelato coram populo il motivo della doppia morale: «La Russia è un paese aggressore, Israele è stato aggredito. Tutto è partito, al di là dei giudizi e di come sta diventando, dal 7 ottobre 2023». Argomento chiuso, anche se il ragionamento era corredato da un vaniloquio che smentiva quanto appena detto: «Io credo che la ricostruzione dei rapporti e di una prospettiva nasca dal riconoscimento dei fatti, che non possono partire dopo ma devono tener conto anche dei presupposti». I presupposti, appunto, come le occupazioni israeliane in Palestina o l’allargamento della Nato a est.

OGGI DAVANTI ALL’INFERNO palestinese, può sembrare di poco conto la questione calcistica. Ma il pallone, che per il marxista Eric Hobsbawm è culto proletario di massa, esemplare prodotto storico della società industriale – è modello plastico di fenomeni sociali complessi, a volte anche anticipatore normativo di istanze della società civile. I primi esempi, se non di boicottaggio almeno di scrupoli di coscienza rispetto al genocidio palestinese cominciano a emergere. La federazione norvegese, per esempio, sulla scia delle proteste popolari ha deciso di devolvere l’incasso della partita Norvegia-Israele dell’11 ottobre – stesso girone di qualificazione dell’Italia – a un’associazione umanitaria che opera a Gaza. Si era parlato della stessa iniziativa anche da parte della Federcalcio italiana per la partita di tre giorni dopo, ma la proposta sembra già tramontata. Si tratta, comunque, di operazioni di singole federazioni, non condivise a livello mondiale.

A proposito della doppia morale tra Israele e Russia, il presidente della Fifa Gianni Infantino temporeggia da quasi due anni sull’espulsione di Israele dal calcio mondiale richiesta dal Comitato olimpico palestinese. Al contrario fu molto veloce nel 2022: la cacciata con ignominia delle nazionali russa e bielorussa e di tutti i loro club dai consessi internazionali avvenne solo quattro giorni dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Questo anche se Infantino, politicamente, è da sempre molto vicino a Mosca: amico di Putin, che gli ha consegnato personalmente la medaglia dell’Ordine dell’amicizia al Cremlino, negligente a dir poco nei confronti dei sospetti di doping russo prima del Mondiale di calcio del 2018 proprio in Russia, e pronto a condannare chiunque pronunci su un campo di calcio uno Slava Ukraini benché lui si sia abbandonato in pubblico a uno Slava Rossii. Ma perché questa disparità di trattamento?

IL CALCIO RUSSO è espressione dell’autocrazia russa: aziende ferroviarie, multinazionali del gas e banche statali sono alla guida delle squadre più importanti del campionato e gli investimenti che hanno portato il calcio post-sovietico ad affacciarsi ai palcoscenici europei nei primi anni del nuovo millennio – sono stati diretti da Putin in persona. Per questo motivo, la punizione internazionale arrivata tramite il calcio ha avuto un senso profondo e più rilevante di quanto si possa immaginare.

Oggi il calcio israeliano, invece, coi suoi presidenti decisamente più canonici rispetto a quelli russi, è una (brutta) copia del calcio inglese, francese, tedesco e soprattutto italiano: intrecci familiari con la politica, palazzinari vari, venditori di auto e potenziali criminali. Tutto molto ortodosso e, di conseguenza, decisamente innocuo. Per esempio: Alona Barkat, proprietaria dell’Hapoel Beer Sheva, secondo l’anno scorso, è cognata del ministro dell’Economia israeliano, Nir Barkat, ex sindaco di Gerusalemme dal 2008 al 2018, investitore, col fratello, in multinazionali che si occupano di sicurezza informatica e trading con sede legale alle Isole Vergini; Mitchell Goldhar, milionario canadese, a capo di un fondo d’investimento che costruisce centri commerciali, è proprietario del Maccabi Tel-Aviv, campione in carica; Ya’akov Shahar, presidente sempre di un Maccabi, quello di Haifa, presiede una delle più grandi compagnie di importazione di macchine e camion israeliane; Moshe Hogeg del Beitar Gerusalemme, attivo soprattutto nel campo delle criptovalute e frodatore seriale (incriminato per un caso da oltre 290 milioni di dollari) è fuori su cauzione da 22 milioni, in attesa di giudizio a seguito di accuse di traffico di esseri umani, induzione alla prostituzione, somministrazione di droga a minori e così via. E queste erano solo le prime quattro in classifica dello scorso campionato.

Insomma: niente di nuovo per il calcio, decisamente abituato al modo in cui politici, imprenditori e delinquenti usano lo sport-washing per migliorare la loro reputazione.

SE PUNIRE IL CALCIO RUSSO è servito a punire lo statalismo russo, non punire quello israeliano ha significato validare un modo di fare calcio del tutto simile a quello occidentale. Al punto che il presidente della Lazio e senatore di Forza Italia, Claudio Lotito, ha siglato a maggio scorso un accordo con Goldhar e Shaha, presidenti dei Maccabi di Tel- Aviv e Haifa, per promuovere una non meglio precisata collaborazione calcistica e «una campagna di sensibilizzazione contro l’odio e la discriminazione razziale». Peccato che i tifosi del Maccabi Tel-Aviv, tramite i loro profili ufficiali, pubblichino foto dei loro membri impegnati nelle operazioni a Gaza, confermando la loro matrice esplicitamente anti-araba.
Con tutti gli impianti sportivi di Gaza distrutti dall’Idf e le oltre ottocento vittime tra atleti, allenatori, dirigenti, arbitri, tra cui anche stelle del calcio palestinese, ci vuole coraggio per proseguire sulla strada degli accordi con Israele e per ritenere legittime le partite di calcio con Israele. Lo stesso “coraggio” del ministro Abodi e del senatore Lotito.

(il manifesto, 9 settembre 2025)


"E' passato un anno dalle elezioni anticipate volute da Emmanuel Macron, due primi ministri da lui nominati sono nel frattempo caduti e ancora il Presidente non ha capito che il grande perdente è lui" scrive Barbara Spinelli su il Fatto Quotidiano. Iniziano così le sue considerazioni su "Crisi à la Parisienne" ... (10 settembre 2025)





Uguaglianza. Un progetto economico alternativo di Emiliano Brancaccio


«A causa di una rivolta sociale il Museo d’Orsay è chiuso» e i turisti non potranno ammirare le opere di Courbet. Per questa ironica serrata, il grande pittore rivoluzionario avrebbe guardato con simpatia il movimento che ieri ha paralizzato Parigi al grido «blocchiamo tutto».

Alcuni distruttori senza criterio, certo. Ma soprattutto giovani, tantissime donne, molti immigrati, e drappi rossi a volontà.

Si dice che il movimento sia nato dalle file della destra sovranista attiva sui social. Sarà, ma ieri si è vista poco. I «bloccanti», li chiameremo così, sono portatori di un linguaggio sovversivo in cui il termine «nazione», in senso repubblicano e molto francese, di certo non manca. Ma la parola chiave dei rivoltosi è un’altra: «Uguaglianza». Scandita bene, agitata come un’arma dialettica, in primo luogo contro le politiche di privilegio di Macron, alle quali i post-fascisti che siedono all’Assemblea nazionale vorrebbero dare sostegno più apertamente di quanto possano oggi ammettere.

La protesta è rivolta in primo luogo contro il programma anti-sociale che Macron sta cercando di imporre al paese. Oltre una quarantina di miliardi di tagli, da selezionare alla solita maniera: blocco delle pensioni e delle prestazioni sociali, stop alle assunzioni statali, scasso della sanità pubblica e, guarda caso, abolizione della festa dell’8 maggio per la vittoria contro il nazifascismo.

Bardella e gli altri neri in parlamento avrebbero anche voluto abboccare. Ma per adesso gli tocca inscenare la vecchia farsa della destra di opposizione, sociale e rivoltosa. Sappiamo di che giravolta saranno capaci se andranno al governo. Meloni insegna.

La dottrina dei sacrifici viene giustificata al solito modo: il debito pubblico è troppo alto e lo stato francese è l’ultimo, grande spendaccione d’Europa. Bisogna risanare, ripulire, ridisciplinare l’inefficiente apparato pubblico. Prima di esser cacciato via, il dimissionario Bayrou aveva pure riesumato il vecchio motto thatcheriano: non c’è alternativa.

Se però guardiamo bene i dati, la realtà è un po’ diversa. La Francia ha un debito pubblico situato intorno al 115 percento del Pil. Più alto della Germania e della media europea. Ma più basso, per esempio, rispetto al 135 percento dell’Italia. Eppure la Francia è sotto tiro, l’Italia al momento lo è meno. Perché?

Il motivo risiede in un fatto che non è quasi mai salito all’onore delle cronache ma ormai è ben noto agli economisti, critici e persino mainstream. Il fatto è che la fragilità finanziaria di un paese dipende non tanto dall’andamento del debito pubblico quanto piuttosto dall’andamento del debito verso l’estero, sia pubblico che privato. In altre parole, più che l’ammontare di finanziamenti che lo stato chiede ai privati, conta soprattutto la dimensione dei prestiti che lo stato e i privati chiedono ai creditori esteri, per finanziare le importazioni di merci in eccesso rispetto alle esportazioni. Insomma, la fragilità finanziaria non è semplicemente un problema di apparato pubblico spendaccione. È un problema, più grande, di capitalismo nazionale meno competitivo rispetto ai concorrenti.

Da questo punto di vista, la Francia è esposta verso l’estero per oltre il 20% del Pil. L’Italia, invece, non ha più questo problema. Non certo perché abbiamo risolto il problema competitivo del capitalismo nostrano. Ma per un motivo in fondo opposto: per anni abbiamo fatto talmente tanta austerity che i nostri redditi sono crollati e quindi anche le nostre importazioni di merci sono precipitate, al punto che oggi il paese è creditore netto verso l’estero. Deindustrializzato, impoverito, ma proprio per questo creditore.

In un certo senso, la Francia è oggi chiamata a seguire proprio la «dottrina italiana» che fu del governo Monti. Se così andasse, inizierebbe la definitiva erosione dell’ultimo capitalismo concorrente con quello tedesco. Una germanizzazione compiuta dell’Europa a spese, in primo luogo, delle lavoratrici e dei lavoratori francesi.

Il problema di chi vorrà davvero accogliere le istanze dei «bloccanti» sta qui.

Prima che venga represso, bisogna trasformare il vento di rivolta che attraversa le piazze francesi in un progetto generale alternativo di politica economica. Una soluzione che diventi ipotesi alternativa anche per l’Europa arcigna e guerrafondaia dei giorni nostri.

Le soluzioni tecniche esistono, a partire dal blocco della spesa militare e delle fughe di capitali. Può funzionare, a una condizione. Il baricentro intorno al quale edificare il nuovo deve essere l’uguaglianza, più che la nazione. Così si smascherano i post-fascisti, così si fa egemonia. I «bloccanti» danno la linea.

(il manifesto, 11 settembre 2025)


Diritto internazionale. Assedio illegittimo, romperlo è un dovere di Micaela Frulli


Il blocco imposto da Israele a Gaza, che va avanti dal 2007, ha subito negli ultimi due anni un’escalation senza precedenti.

Formalmente giustificato da Israele come misura di sicurezza per impedire l’arrivo di armamenti, si è tradotto in sostanza in una restrizione quasi assoluta alla circolazione di beni di prima necessità, determinando una crisi umanitaria e una carestia riconosciute da vari organismi dell’Onu e da ong indipendenti. La qualificazione giuridica del blocco dipende dal diritto internazionale umanitario e dal diritto del mare: secondo il Manuale di San Remo sul diritto applicabile ai conflitti armati in mare (1994), un blocco navale è lecito solo se non ha come unica finalità quella di privare la popolazione civile di beni indispensabili alla sopravvivenza e non è suscettibile di creare un danno per la popolazione civile sproporzionato rispetto al vantaggio militare atteso.

A Gaza tali limiti sono stati superati da tempo. Un blocco di simili proporzioni e gli ostacoli posti alla fornitura di aiuti da parte di soggetti terzi indipendenti e imparziali violano varie norme di diritto internazionale umanitario, tra cui gli artt. 33, 55 e 59 della IV Convenzione di Ginevra e degli artt. 54 e 70 del Protocollo I aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra. Inoltre, affamare la popolazione civile è un crimine di guerra secondo l’art. 8 dello Statuto della Corte penale internazionale. Tali condotte possono inoltre contribuire a integrare gli elementi del crimine di genocidio, tanto che la Corte internazionale di giustizia, nell’ambito del ricorso presentato dal Sudafrica contro Israele, ha emanato tre ordinanze cautelari ordinando a Israele di adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria a Gaza.

In tale contesto, le iniziative civili e internazionali che mirano a portare aiuti umanitari via mare – come la Global Sumud Flotilla – assumono un rilievo particolare. Dal punto di vista giuridico, tali missioni si collocano non solo nella cornice umanitaria delle Convenzioni di Ginevra, ma anche nel quadro della libertà di navigazione sancita dalla Convenzione Onu sul diritto del mare (1982). Finché le navi operano con finalità esclusivamente civili, senza trasporto di armi né scopi militari, godono della protezione spettante alle missioni di soccorso umanitario. Il diritto internazionale umanitario prevede che, quando la popolazione di un territorio non riceve rifornimenti adeguati, le operazioni di soccorso di carattere umanitario e imparziale devono essere autorizzate e agevolate dalle parti in conflitto. Questo vale anche nel caso in cui sia stato istituito un blocco navale (par. 103 del Manuale di San Remo). In più, il diritto del mare riconosce la libertà di navigazione nelle acque internazionali e limita le possibilità di fermo di navi civili a ipotesi quali la pirateria o altri gravi illeciti. L’uso della forza contro imbarcazioni che trasportano beni di prima necessità costituisce dunque un atto illegale e l’eventuale fermo delle navi e arresto dei passeggeri comportano a loro volta la violazione di numerose regole di diritto internazionale.

Da tutto ciò deriva che l’illegalità del blocco e la legalità di missioni umanitarie come quelle intraprese dalla flottiglia si inseriscono in un quadro ampio, in cui il diritto internazionale attribuisce obblighi e responsabilità anche agli Stati terzi. Anzitutto, non possono rimanere passivi dinanzi a violazioni così gravi del diritto internazionale umanitario. L’articolo 1 comune alle Convenzioni di Ginevra obbliga tutti gli Stati «a rispettare e a far rispettare» le norme umanitarie «in ogni circostanza». Significa che i governi hanno l’obbligo di non riconoscere come lecito il blocco e l’obbligo di fare tutto quanto è nelle loro possibilità perché il blocco cessi o rientri nei limiti della legalità e perché gli aiuti umanitari possano arrivare alla popolazione civile (a tacere dell’obbligo di prevenzione del crimine di genocidio). Rispetto all’azione della flottiglia, gli Stati, in special modo quelli dell’Unione europea, e la stessa Ue – che più volte ha dichiarato di fondare l’azione esterna sul rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani – dovrebbero come minimo attivare i canali diplomatici con Israele per garantire il passaggio sicuro delle navi. In caso di minacce o di azioni violente nei confronti delle navi o delle persone a bordo, gli Stati sono inoltre tenuti a offrire protezione diplomatica e consolare alle navi che battono la propria bandiera e ai propri cittadini imbarcati. Il mancato intervento a protezione della flottiglia non è dunque soltanto una scelta politica, ma presenta precisi profili di responsabilità giuridica.

(il manifesto, 10 settembre 2025)


La prima pagina del Corriere della Sera di oggi ... (11 settembre 2025)








Il titolo de la Repubblica di oggi ... (11 settembre 2025)








La prima pagina del Quotidiano Nazionale - Resto del Carlino ... (11 settembre 2025)











4 settembre 2025, ore 18.30, Bologna in Piazza Maggiore e in Piazza del Nettuno per "Stop al genocidio e Palestina libera" ...








Tantissime donne e solidarietà con la Global Sumud Flotilla ...
 




La marea umana e il Nettuno ...








"Con i portuali e la Global Sumud Flotilla, noi non lavoriamo per la guerra" ... (foto di Barbara Mazzoli)






9 settembre 2025, ore 19.00, Piazza Maggiore, Portico di Palazzo del Podestà: presidio "un drone israeliano ha colpito e danneggiato la Family Boat in acque tunisine, Difendi le barche della Global Sumud Flotilla" ...














Sotto una pioggia battente ragazze e giovani internazionaliste/i ... e qualche anziano




















Poi, corteo in via Rizzoli, Strada Maggiore, Piazza Aldrovandi ...


















L'Università di Bologna e quelle del mondo interrompano le relazioni con lo Stato d'Israele che pratica il genocidio a Gaza ed estende le occupazioni illegali nella terra di Palestina ... 















Persone, bandiere e foto ...














Nuovi appuntamenti: a Ravenna il prossimo 16 settembre "fuori Israele dal Porto, No al traffico d'armi, No al progetto Undersec" ... Ritrovo alla Darsena (dietro alla Stazione FS) 











A Bologna 27 e 28 settembre "Palestina libera, due giornate di resistenza: libertà per Marwan Barghouti e tutti i prigionieri politici" ...


... con dibattiti, poesia, musica, mostre, giochi dalle 10 alle 18. Via Zampieri 10 - 12 


5 commenti:

  1. Hai ragione, qui pare che tutti considerino la guerra uno strumento per affermare le proprie convinzioni e gli interessi nazionali o dell'impero che pensano di essere.
    Così si muovono da tempo Netanyahu, Putin, Erdogan, Presidenti americani, inglesi e francesi.
    Ora Trump recupera anche simbolicamente il Dipartimento della Guerra ante 1948 e l'Europa che sceglie il riamo nazionale schiera truppe sul fronte Est, senza adottare alcuna iniziativa per il cessate il fuoco e per soluzioni di coesistenza.
    Sono tutte posture - dalla Cina alla Russia, a Israele, dall'UE agli USA - che anziché scegliere percorsi di distensione e di dialogo inducono incomprensioni e rischi atomici.
    Eppure da un conflitto nucleare avremo tutti da perdere.
    Ciao!

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  2. L'impressione è che chi pensava di esportare democrazia a Oriente stia subendo una sconfitta storica. Autarchi si stanno impadronendo dell'Occidente. In America e in Francia non siamo a questo? Sull'orlo di guerre civili?
    In medio oriente pare addirittura che siano le monarchie del golfo i regimi piu moderati.
    E la Cina che esalta la forza risulta fattore di un ordine mondiale plurale e pacifico?
    Impensabile.

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  3. L'articolo di Mattia Garau sul calcio focalizza un intreccio di interessi tra società italiane ed israeliane che si ripropone ben oltre l'ambito sportivo.
    L'arroganza e l'impunità di Tel Aviv nasce ha radici profonde nel sistema economico e sociale che Emiliano Brancaccio denuncia.
    Grazie per la selezione che produci.
    M.

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  4. In questo spazio di aria respirabile rivolgo solo due domande. Cosa può significare "uno Stato palestinese senza Hamas"? Che sbocco può avere un conflitto in Europa in cui l'UE supporta militarmente l'Ucraina contro la Russia fino ad una "pace giusta" che risulta essere il ritorno sotto il controllo di Kiev di tutti i territori occupati dal Donbas alla Crimea?
    WM

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  5. Il Dovere dello stato di Israele è tutelare i propri cittadini (tra cui numerosi attivisti per la pace) sul proprio territorio aggrediti dai combattenti di Hamas o nel Diritto di radere al suolo Gaza e i suoi residenti, negando l'esistenza di un popolo e di uno stato riconosciuto dall'ONU?
    ☆☆☆

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