Francesco Samoggia e Loriano Genovesi sono stati operai delle Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato di Bologna. Erano inoltre attivi, come volontari, in associazioni impegnate a conquistare migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti.
Come molti altri colleghi dopo decenni di lavoro (e naturalmente di contributi regolarmente versati) non si sono goduti la pensione. Anche loro sono morti, in pochi mesi "dopo un colpo di tosse" ed una terribile agonia, di mesotelioma pleurico. Ammazzati, senza speranza, come migliaia e migliaia di altre persone, dall'amianto, il materiale con cui sono stati a lungo in contatto per svolgere la loro professione.
Ora, "in nome del popolo italiano" un Tribunale ha assolto in via definitiva l'imprenditore (svizzero) dell'azienda produttrice di amianto (l'Eternit, con sedi a Casale Monferrato, Rubiera e Bagnoli) condannato in primo e secondo grado di giudizio "per disastro ambientale".
Attenzione. È confermato: da anni il magnate Stephan Schmildheiny sapeva del danno cancerogeno provocato dalle produzioni dei suoi stabilimenti. Considerando il tempo di incubazione della malattia, il picco delle morti per l'epidemia sarà registrato nei prossimi anni. Ma siccome l'attività industriale è stata chiusa alla fine del secolo scorso, il reato secondo la Cassazione (e le leggi in vigore nel nostro paese?) è prescritto".
Dunque, nessuna giustizia e nessun risarcimento!
Un messaggio devastante: per il popolo italiano.
Un messaggio ed una "promessa irresponsabile" per gli imprenditori ("sereni, in Italia non si rischia nulla") ed anche per "i disperati", disposti a vivere anche il rischio piuttosto che patire la fame e/o morire di gelo.
Per fortuna c'è anche un'Altra Italia.
Quella dei familiari delle vittime di Casale e di amianto, che in nome della dignità delle persone e della giustizia rifiutano di chiudere la vicenda con un mero indennizzo economico. Come se i soldi potessero comprare la vita.
Quella delle associazioni dei medici e dei sindacati dei lavoratori, che rinnovano la mobilitazione e la lotta per riconoscere diritti civili e doveri sociali.
Quella di rappresentanti delle istituzioni come diversi Sindaci, che solidarizzano e sostengono le vittime, continuano a chiedere giustizia ed operano per il risanamento ambientale dei tanti siti contaminati.
Quella di magistrati, come i pubblici ministeri di Torino che in nome dei principi costituzionali contestano la sentenza e riaprono l'inchiesta e l'azione giudiziaria "per omicidio volontario a fine di lucro".
Un'Altra Italia di cui essere orgogliosi e che da speranza.
Che sfida il Governo ed il Parlamento ad essere conseguenti alle affermazioni di Matteo Renzi: "ci sono dolori che non hanno scadenza, serve una nuova legge".
Naturalmente una legge veloce, ma soprattutto ben fatta e senza ambiguità!
Come dice un amico comune, ci sarebbe da vergognarsi di essere italiani.
RispondiEliminaPoi però, pensandoci su è noto che in tutto il mondo quello di Guariniello è il primo processo contro le stragi da amianto. E in molti paesi ancora lo si produce.
Allora orgoglio e lotta per un mondo più giusto!
Anna
Sul tema ha scritto su il manifesto in rete, Loris Campetti.
RispondiEliminaM.
La morte e il dolore si possono prescrivere per scadenza termini. Così ha deciso la Cassazione, sulla base del principio che qualora il diritto non sia in consonanza con la giustizia, è il primo e non la seconda che per il giudice deve prevalere. All’ombra del Palazzaccio, così, è stato commesso l’ennesimo omicidio e la nuova vittima, la giustizia, va ad aggiungersi ai tremila uomini e donne uccisi dall’amianto. Uccisi da Stephan Smidheiny, il magnate svizzero padrone dell’Eternit.
Forse l’hanno chiamato Eternit proprio perché procura la pace eterna a chi lo lavora, a chi lo tocca lavando vestiti impregnati di fibre velenose, a chi lo respira. Ma siccome dal 1986 in Italia gli stabilimenti – i campi di sterminio – dell’Eternit sono chiusi, gli omicidi di Smidheiny non sono più giudicabili e dunque i processi di primo e secondo grado e il lavoro straordinario del magistrato Raffaele Guariniello sono cancellati. Pazienza se l’amianto uccide ancora, con l’arma del mesotelioma pleurico, più di ieri e meno di domani. Uccide nel tempo, con anni di ritardo rispetto al momento dell’esposizione alle sue fibre. Pazienza se il picco degli omicidi si prevede addirittura nel 2025. Pazienza se tutti, proprio tutti anche dentro il Palazzaccio, ammettono che Smidheiny è responsabile di quegli omicidi perché conosceva le conseguenze dell’amianto sulla salute delle persone.
Reato prescritto. I parenti delle vittime che da decenni conducono la loro battaglia perché la verità sulla strage che ben conoscono venga riconosciuta e formalizzata e pretendono giustizia, se ne facciano una ragione: reato prescritto. Tanto, anche se non se faranno una ragione, molti di loro cesseranno di soffrire e incazzarsi, ammazzati anch’essi dal mesotelioma. Scriveva Stefano Benni in una delle sue prime poesie: “Chiedete giustizia, sarete giustiziati”.
Li conosco uno per uno, gli uomini e le donne ancora vivi di Casale Monferrato che non si sono mai piegati e ancora oggi non si piegano al primato del presunto diritto sulla giustizia. Quando ieri mattina, prima dell’udienza conclusiva della Cassazione, ho visto tra i tanti uno striscione che recitava “L’unica giustizia è quella proletaria” ho avuto un moto di fastidio. Ieri sera, dopo la sentenza, i miei sentimenti verso quel polveroso slogan erano mutati.
Forse un merito la inaccettabile, offensiva, umiliante sentenza sull’Eternit, ce l’ha. Fa chiarezza su un’illusione collettiva che per vent’anni ha avvelenato i nostri cervelli: l’idea che la crisi della politica, il crollo della sua credibilità, possano essere compensati dal protagonismo di una magistratura vissuta come neutrale, dunque giusta, se non addirittura schierata dalla parte delle vittime e non dei carnefici. La magistratura come un nuovo faro per gli oppressi nel suo ruolo di supplenza alla politica degradata.
Che follia, nel paese delle stragi di stato senza colpevoli. La legislazione è figlia del conflitto politico e sociale, le conquiste civili sono frutto di lotte e non sono irreversibili ma destinate a mutare con il mutare della stagione, politica e sociale. Solo la pressione civile e sociale può consentire di muoversi tra le pieghe delle leggi esistenti e di garantirne un’interpretazione democratica da parte dei magistrati. Se la sinistra non c’è più, è insensato convincersi che la nuova sinistra possa essere la magistratura. Se la stella della politica si è inabissata, e come si è inabissata, è insensato pensare di sostituire la sua perduta luce con quella effimera di una candela votiva.
Non ci sarà salvezza per il nostro paese finché il dolore e la rabbia dei parenti delle vittime dell’amianto non diventeranno il suo dolore e la sua rabbia.
... mentre Marco Revelli, ha scritto su il manifesto, quotidiano comunista.
RispondiEliminaM.
E’ possibile, con un semplice tratto di penna, in poche ore di un pomeriggio d’autunno, cancellare un crimine contro l’umanità? Perché questo ha fatto la Corte di Cassazione italiana mercoledì 19 novembre. Ricordiamola questa data: resterà un giorno nero per sempre e per tutti. Almeno 3.000 sono le morti nell’area di Casale Monferrato e degli altri stabilimenti italiani a causa dell’Eternit del signor Stephan Schmidheiny. Altre purtroppo ne verranno perché il mesotelioma pleurico non conosce la prescrizione, lavora nel tempo, per decenni (fino a quarant’anni). E non perdona: molti di coloro che se lo portano dentro sono condannati, prima ancora di sapere di esserne stati contaminati (si calcola che il picco massimo di morti si avrà nel 2025!).
I giudici che hanno applicato nella forma più restrittiva i termini formali della prescrizione devono avere un ben strano concetto del disastro ambientale, per stabilire che esso è terminato esattamente in un giorno preciso del 1986, quando cessò la produzione negli stabilimenti italiani, anche se dagli impianti continuarono a spargersi le micidiali microfibre nell’aria. E lui stesso continuò tranquillamente la produzione mortale in Canada e in Brasile, trovando nelle baraccopoli di tutto il mondo il proprio miserabile mercato. Così come chi si è assunto la responsabilità di una così disumana sentenza deve avere una ben strana concezione del diritto, se ritiene che esso possa contraddire in forma così plateale e feroce l’idea più elementare di giustizia.
Sarebbe però ingenuo, e tutto sommato rassicurante, limitare il senso di questa sentenza al vuoto di coscienza di un giudice. Purtroppo c’è, in questo verdetto disumano, la percezione dello spirito del tempo, per quell’innato conformismo istituzionale che caratterizza la parte peggiore della nostra magistratura. C’è il vento gelido di un nuovo statuto del mondo che da tempo viene avanti, in forma via via più esplicita, nei luoghi dove si conta e si decide, nelle Cancellerie e nei Consigli d’amministrazione, nei think tank e nelle cabine di regia dei media. Un nuovo comandamento, unico, che dice che “il denaro è tutto, il lavoro è niente”. Anzi, che la vita delle persone, che del lavoro è componente prima, è niente, null’altro che una variabile dipendente, perché le scelte, tutte le scelte che contano, le fa chi possiede. Chi investe. Chi ci mette i capitali. E ha la forza di comprarsi tutto, uomini, partiti, giustizia, verità, libertà. Compresa quella di restarsene tranquilli in Svizzera, con sulle spalle il peso di migliaia di morti.
Non è forse questo lo spirito delle cosiddette misure di “aggiustamento strutturale” imposte dalle autorità finanziarie globali? O delle manovre “suggerite” dalla Troika europea? Non è la filosofia immanente del Jobs Act (rinuncia a diritti reali in cambio di ipotetici investimenti)? O il messaggio subliminare lanciato dallo spettacolo grotesque della Leopolda, e delle contigue cene dei milionari di corte, dove il potere immaginifico del denaro l’ha fatta da padrone?
Lo confesso: da mercoledì sera sto male. Fisicamente male. Come se tutti ci fossimo ammalati d’amianto, e per quest’assenza di giustizia ci mancasse, letteralmente, l’aria, il mondo si fosse chiuso, e tutto ciò in cui abbiamo creduto non contasse più nulla. Bisognerà ben sfondarla, questa cappa, per non soccombere alla malattia. Bisognerà ben romperla questa gabbia in cui ci hanno chiusi, che chiamiamo con termine ormai frusto neo-liberismo, come se fosse solo un’opzione economica, ma che in realtà è ben peggio: è un modello di vita che contraddice e distrugge la vita.
Marco Revelli