lunedì 9 settembre 2024

Fatti nostri

L'assemblea di Sbilanciamoci, dall'altra parte del lago di Como rispetto al Forum di Cernobbio ... 











Le guerre si estendono a nuovi territori tanto in Medio Oriente quanto in Europa. Truppe ed armi sempre più sofisticate raggiungono i fronti di conflitto e le aree ritenute strategiche dai vari contendenti. Crisi politiche e sociali coinvolgono importanti paesi d'Europa e d'America. I potenti della Terra moltiplicano incontri riservati, rapporti segreti e forum a porte chiuse. Tornano sulla scena uomini del passato. Parliamone.

Il lungo raggio di un disastro ravvicinato

Siamo a un mese esatto dall’operazione militare ucraina del 5-6 agosto nella regione russa di Kursk, l’azzardata e storica “invasione” della Federazione russa – il Corriere della Sera ha fatto riferimento alla prima volta dell’operazione Barbarossa del 1941 delle truppe hitleriane – stavolta per risposta che si è voluta a tutti i costi simmetrica all’invasione russa del Donbass del febbraio 2022. Ora, di fronte al terremoto politico in corso nel potere a Kiev, è legittimo interrogarsi sui risultati dell’operazione Kursk. Perché? Perché, sostenuta dalla Nato e dalla stessa Unione europea come risposta legittima e pratica attuazione del diritto ucraino a colpire con armi occidentali in profondità il territorio russo, che è stato colpito più e più volte fino a Mosca stessa, è stata via via motivata con ragioni che appaiono sempre più incredibili e controproducenti.

Dal presidente ucraino Zelensky, dai suoi consiglieri – tempi duri per i consiglieri – per non dire dell’esaltazione di molti media occidentali, è stata raccontata infatti come: necessità di avere territori da scambiare in una eventuale trattativa (35 km, 90 villaggi e il centro strategico di Sudzha occupati paragonabili a tutto il Donbass autoproclamatosi indipendente e annesso con la forza da Mosca che amministra ormai quei territori come suoi?

Poi come necessità di costruire una improbabile zona cuscinetto; e soprattutto come tentativo di rompere la pressione militare russa nel Donbass. Questa operazione, probabilmente suicida di un migliaio di militari ucraini, enfatizzata invece a più non posso come ultima declinazione del concetto di “vittoria”, come prova di forza “eguale” in una guerra che è e resta asimettrica e come vendetta – «Ora provano quello che abbiamo provato noi» – a questo punto si trova sospesa n territorio nemico, con Mosca che comincia a dare notizia di battaglie con impiego di truppe speciali arrivate dalla regione di Kaliningrad, che hanno fermato l’avanzata iniziata il 5-6 agosto.

Ma il fatto più rilevante è che la pressione russa nel Donbass non solo non si è arrestata ma è aumentata di intensità con nuove conquiste di territorio, mettendo a repentaglio nuove città a cominciare dalla strategica Pokrovsk. In buona sostanza più è aumentato il lungo raggio della guerra, più la risposta di Mosca è stata immediata, durissima e “a lungo raggio”. Come dimostra l’abbattimenro (in volo o a terra) di un prezioso F16 con il suo pilota, Oleksii ‘Moonfish’ Mes, volto della campagna di Zelensky per ottenere proprio gli F-16 dagli Usa, che ha provocato il siluramento del capo dell’aviazione; senza tacere la distruzione, proprio in questo mese, di più del 40% delle infrastrutture energetiche con relativo siluramento del capo ucraino del Dipartimento energia; e ad ultimo come dimostra la strage di militari di Poltava, una importante scuola di addestramento, vale a dire la chiave della difficile e non popolare mobilitazione ucraina.

Più si colpisce in profondità la Russia, con operazioni militari azzardate e con armi occidentali, più Putin risponde ricordando l’asimmetria della sua forza in campo e più trova “ragioni” di fronte al popolo russo per confermare la giustezza, la lungimiranza del suo operato nel febbraio 2022 quando con l’invasione dichiarò di avere prevenuto un’operazione Nato-Ucraina contro la Russia, e che ora l’azzardo di Kiev con l’invasione nel Kursk – che secondo il New York Times ha tra l’altro fatto fallire una tornata di colloqui per una tregua – rende concreta agli occhi dell’opinione pubblica, non solo russa.

Si può dire che siamo ad un fallimento di quell’azzardo. O dobbiamo aspettare che dopo i tre ministri – uno dei quali responsabili degli armamenti – e altri altissimi funzionari ai quali si è aggiunto nelle ultime ore lo stesso decisivo ministro degli esteri Kuleba, dobbiamo aspettarci anche quelle dello stesso Zelensky? Il giudizio resta sospeso per una questione dirompente: l’attuale debolezza di Kiev che rasenta la sconfitta rilancia con Zelensky la richiesta “subito” di missili a lungo raggio per colpire ancora più in profondità la Russia. Cancellerie europee e Stati uniti pur convinti di queste motivazioni hanno già dato il via libera (con poche eccezioni che comunque confermano l’avvio irresponsabile di un riarmo europeo che si arrischia a usare perfino i fondi del Pnrr) all’uso delle armi occidentali in chiave offensiva dentro il territorio russo.

Ma il salto di qualità verso il disastro sarebbe a questo punto l’arrivo di nuove sofisticate armi a lungo raggio, come i missili americani Jammer, pronti a partire, ormai promessi ma «solo in autunno inoltrato non ora» dicono fonti della Casa bianca, anche perché le nuove forniture sembrano appese anche loro alle vicende delle presidenziali Usa. Per le quali un clima concreto da Terza guerra mondiale e di un confronto nucleare con Mosca in piena tornata elettorale non sarebbe, come a dire, di buon auspicio al di là della contesa Kamala Harris-Trump; e in Europa, dove quaranta anni dopo vengono schierati nuovi missili intercontinentali a testata nucleare, saremmo nel pieno del terrore atomico.

Mentre l’Unione europea vive la stagione della sua metamorfosi nera – il tramonto con sfumature neonaziste del “Modello Germania” -, non dà segnali di esistenza una sinistra pacifista italiana e continentale che tuoni contro la guerra, che alzi la voce e scenda in piazza su questo tema perché è quello più dirompente. Siamo forse ridotti al “pensiero cauto” tutt’altro che pacifista di un mercante d’armi opportunista come Crosetto, che chiede di mettere fuori dal famigerato Patto di stabilità non la sanità o le spese sociali, ma le spese militari?

La situazione sul campo è ancora per poco di stallo e se non vogliamo che Putin vinca e che Kiev sia sconfitta basta con l’invio di armi che vuol dire più morti e più odio. C’è da costruire il lungo raggio della tregua e della pace. Basta deprimere le forze internazionali (Onu, Cina, la Chiesa, il Brasile, India, Paesi africani) che più si spendono e si sono spese per una tregua. Bisogna riavvolgere il nastro della guerra a poche ore prima dell’invasione criminale di Putin. Perché fallirono gli accordi di Minsk che pure durarono anni nell’epoca di Angela Merkel? Chi preferì la guerra il cui inizio, ancora intestino ma esplosivo, è il 2014 non il 2022? Che cosa è stato davvero Majdan? I termini di un cessate il fuoco esistono ancora tutti, per poco tempo ancora: ritiro di Mosca dai territori occupati, autodeterminazione del Donbass, Crimea russa, neutralità rispetto alla Nato. Prima che il lungo raggio del disastro si allarghi ancora di più.

Tommaso di Francesco, il manifesto, 5 settembre 


Un Paese ostaggio delle menzogne del primo ministro

Al primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu si attribuiscono, come è noto, eccelse doti di statista, di grande negoziatore e diplomatico, di fine oratore, politico navigato e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia, fin dagli inizi della cosiddetta rivoluzione giudiziaria che il suo governo ha voluto attuare, l’immagine del premier ha subito danni e provocato critiche violente, dentro Israele e fuori.

Con il 7 ottobre, il risveglio alla realtà è stato incredibilmente traumatico e inaspettato per la maggior parte degli israeliani. E’ stato quasi logico accusare in primo luogo Netanyahu. Al tempo stesso, davanti alle immagini dei cittadini assassinati, delle case incendiate, distrutte, saccheggiate, di uomini armati che liberamente e senza freni percorrevano il sud del paese, ci si chiedeva: d’accordo, il premier è lui, ma dov’era il famoso, intelligente, morale, invincibile esercito? In effetti, lo scorso aprile il capo dei famosi e ultramoderni servizi di intelligence dell’esercito ha ammesso le proprie responsabilità rassegnando le dimissioni. Dopo meno di 24 ore dall’attacco, ecco la risposta di Israele. Altrettanto barbara: niente trattative (come consigliavano invece, e invano, alcuni sprovveduti), solo vendetta; orgogliosa vendetta. Una lezione esemplare, ripetevano tanti. Ed ecco qua: è già stato versato il sangue di 40 mila palestinesi, mentre si continua a percorrere il sentiero dell’orrore. Chi mai legge Frantz Fanon di questi tempi? Siamo convinti che la violenza sia molto educativa.

Il sentimento dominante è il dolore o l’odio?

Dopo gli accordi di Oslo del 1993, anche fra i militanti di Hamas ci fu chi evocò la possibilità di negoziare la prospettiva dei due Stati. Niente da fare: Netanyahu fu più pratico, arrivando ad accordi segreti che consentirono al Qatar e ad altri donatori di far entrare a Gaza grandi somme di denaro, non solo per tamponare la difficile situazione economica, ma anche per aiutare Hamas a consolidarsi anche militarmente. Inoltre, in tempi recenti è risultato chiaro che gran parte delle armi dell’arsenale di Gaza sono state fabbricate nella Striscia stessa utilizzando anche le munizioni inesplose e le armi rubate alle basi militari.

La maggior parte dei cittadini ha compreso che, dei 120 prigionieri tuttora nelle mani di Hamas, quasi la metà potrebbe essere ormai morta. Il premier non ha mai mostrato grande attenzione ed emozione per le vittime e le loro famiglie in lutto, attirandosi critiche crescenti. Le operazioni che in precedenza hanno condotto l’esercito israeliano a liberare alcuni dei prigionieri hanno consentito a Netanyahu di presentarsi come un salvatore. Emblematico il caso di una donna ostaggio riuscita a tornare presso la madre pochi giorni prima che quest’ultima morisse. Insieme a suo padre, che per l’emozione sembrava sciogliersi davanti al grande leader, è stata portata al Congresso statunitense, il grande palcoscenico che Netanyahu è riuscito ad assicurarsi. Presenti fra gli altri un soldato israeliano di colore autore di atti eroici nella guerra, e naturalmente la moglie del grande leader, sorridente insieme all’ex ostaggio e al padre di quest’ultima.

Quando, malgrado la sempre più intensa mobilitazione delle famiglie degli ostaggi, Netanyahu ha annunciato il carattere sacro del controllo israeliano del corridoio Filadelfia, la risposta di Hamas non è stata molto umanitaria: sei ostaggi uccisi, tre dei quali erano nella lista dei candidati al rilascio in caso di accordo. Allora la rabbia popolare è diventata indicibile. Inutilmente Netanyahu ha detto: «Non li ho uccisi io, li ha uccisi Yahya Sinwar, li ha uccisi Hamas».

La collera contro il governo è diventata così palpabile e diffusa che il premier è tornato alla sua collaudata tecnica, annunciando un discorso alla nazione. Grande attesa, anche se lo svolgimento era già noto, comprese la grande mappa della regione e la bacchetta da insegnante. Il punto principale è stato chiaro: il carattere sacro del controllo del corridoio Filadelfia e del valico di Rafah. Ma i non credenti e gli ignoranti – a causa della loro appartenenza di sinistra o di altre patologie – devono essersi sentiti un po’ confortati quando alcuni dei più seri commentatori di diverse reti televisive hanno sottolineato errori e menzogne nella presentazione a cura del premier. La rabbia popolare è esplosa perché il messaggio è stato molto semplice: nessuno spazio per le trattative.

Ah no? Tornato dai negoziati in Qatar, il direttore del Mossad ha riferito che il premier era pronto a lasciare il corridoio Filadelfia. Ma nella notte Netanyahu in persona ci ha detto che è impossibile abbandonare quel luogo sacro. Nel frattempo i brutali attivisti del partito Likud attaccano i parenti degli ostaggi e dichiarano con orgoglio nazionale che sarebbe meglio che venissero uccisi.

Forse possiamo aiutare un po’ Donald Trump impedendo uno scambio di prigionieri che aiuterebbe Joe Biden? Ma il pericolo di una guerra civile?

Zvi Schuldiner, il manifesto, 6 settembre


Il Rassemblement National di Le Pen e Bardella non più al bando

Nel cuore forte d’Europa gli antidoti ai veleni della destra estrema mostrano di indebolirsi ogni giorno di più. La nomina del vecchio gaullista Michel Barnier, membro di un partito spaccato, in forte evidente declino ed elettoralmente perdente, alla carica di primo ministro da parte del presidente Emmanuel Macron indica con precisione quale sia davvero il punto di caduta. Che non può darsi alcun serio argine al dilagare dell’estrema destra in Europa senza concedere spazio alla sinistra: e non si danno serie aperture a sinistra conservando integra, intoccabile e quasi sacralizzata la politica filopadronale e la strenua difesa della rendita finanziaria cui il cosiddetto centrismo, in tutte le sue articolazioni, si è dedicato da tempo anima e corpo.

E, infatti, è il Rassemblement national di Le Pen e Bardella a dirsi disposto ad andare a vedere le carte del vecchio politico conservatore con un solido pedigree reazionario. Pronto ad entrare nel gioco del potere, probabilmente niente affatto a titolo gratuito. Se dovesse garantire nascita e tenuta di un siffatto governo conservatore il Rassemblement finirebbe se non col tenerlo in pugno, almeno con l’esercitare un forte condizionamento sulla sua futura politica.

La tagliola dell’arroganza di Macron si chiude così inesorabilmente sul Fronte popolare della sinistra. Dopo aver inghiottito i peggiori rospi come l’ex ministro di polizia Gerard Darmanin pur di sbarrare la strada alla destra nazionalista, ritirandosi a favore di candidati macronisti laddove ritenuto necessario per scongiurare la vittoria dei candidati del Rassemblement, la sinistra si ritrova invece oggetto di quella totale messa al bando che avrebbe dovuto bloccare l’estrema destra.

Dietro il “cordone sanitario” “repubblicano” ci è finito così il Fronte popolare. Con la mossa di Macron la République entra ancora una volta in quella modalità monarchica che si annida, anche costituzionalmente, nel suo seno. Ma sappiamo che quando la Francia imbocca questo corso autoritario (e questa volta lo fa addirittura infischiandosene di un risultato elettorale e della domanda di cambiamento che veicola) raramente le acque restano tranquille.

Lo stile di governo di Emmanuel Macron e la sua cinica astuzia stanno sfidando da tempo la pazienza dei cittadini francesi. Non a caso, immediato è stato l’annuncio di mobilitazioni.

Lo smottamento a favore della destra che si è espresso, dopo lunga gestazione, con le elezioni del Parlamento europeo nello scorso giugno non ha affatto cessato di produrre i suoi velenosi effetti.

Una volta assicurata la presidenza della Commissione a Ursula von der Leyen, le cortesie nei confronti di socialdemocratici e verdi hanno perso di interesse. Il declino della Spd, dei Verdi e dei liberali in Germania mina seriamente la tenuta del governo di Berlino e il peso di queste forze in Europa.

Così, il Partito popolare europeo, seguendo la direzione del vento, si pone sempre più il problema di come relazionarsi positivamente con l’inquietante mondo alla sua destra, dapprima assumendone o addirittura anticipandone temi e argomentazioni, ma prima o poi dovrà spingersi oltre questo mimetismo competitivo. Indispensabile sarà, a quel punto, distinguere e separare. Trovare interlocutori più digeribili tra i diversi raggruppamenti sovranazionali della destra. Non sarà facile visto il reticolo di legami che li intrecciano.

Ma non vi è dubbio che gli equilibri europei, a partire dall’asse centrale franco-tedesco stanno cambiando.

Se l’esclusione delle istanze di sinistra e la difesa senza residui degli interessi economici dominanti dovessero diventare una priorità assoluta allora anche in Germania l’appoggio, almeno a livello dei governi locali, da parte dell’Afd non potrebbe che rientrare nell’ordine del possibile.

Il presidente francese ha certamente fiutato questo cambiamento. Non può non aver valutato il fatto che il governo Barnier non avrebbe nessuna possibilità di mantenersi in sella senza una qualche forma di tolleranza da parte del Rassemblement national. E che questo rappresenterebbe in qualche modo un primo passo verso lo sdoganamento definitivo di questa forza politica.

Di fronte a una situazione che impone di scegliere tra destra e sinistra, Macron sceglie la prima. E lo fa misconoscendo platealmente i risultati di una azzardata competizione elettorale che egli stesso ha imposto. Si tratta di una scelta tale da stupire perfino il più convinto critico della democrazia rappresentativa.

Marco Bascetta, il manifesto, 6 settembre


Pupari e marionette di guerra

Oggi Cernobbio, ieri Jackson Hole, domani Davos. Un tempo questi informali incontri al vertice del potere internazionale riuscivano a mantenere i toni glamour tipici delle leggiadre passerelle, delle armoniche serate di gala. Tra una foto in posa e un dinner ufficiale c’era anche da concordare qualche rilevante decisione politica, beninteso. Ma il tutto avveniva in piena serenità, dietro le quinte, lontani dal fastidioso vocìo dei parlamenti.

E sempre in un clima di sintonica allegrezza. Oseremmo dire, di amore capitalistico tra potenti.

Insomma, mostrare il bel volto di un potere unito, solo invidiabile e mai attaccabile: questa era un tempo la funzione dei cosiddetti incontri informali al vertice.

Da qualche anno, tuttavia, lo scenario è profondamente mutato. I sorrisi si fanno tesi, le strette di mano appaiono insicure. La vecchia dolcezza del bel mondo in posa appare sempre più inquinata da dissidi, controversie, nuove lotte materiali tra i potenti. Che pure cambiano postura e passo: sui delicatissimi prati delle ville ospitanti oggi è il tempo dei talloni di ferro.

Accade anche a Cernobbio, che inaugura il suo celebre forum dando la ribalta a Zelenskyj e a Orbán, due esemplari perfetti della nuova, feroce epoca di lotte al vertice. Gli ospiti del meeting si vedono costretti, più o meno esplicitamente, ad allinearsi alle fazioni che questi due nuovi “mostri” di diplomazia oggi rappresentano. Da un lato ci sono gli atlantisti a oltranza, capitalisti convinti che dalla guerra si può ancora guadagnare. Dall’altro lato troviamo gli imprenditori putinisti, o più prosaicamente i proprietari che vogliono farla finita con una guerra che non li aiuta a macinare profitti.

A ben vedere, però, Zelenskyj e Orbán non rappresentano le incarnazioni più nitide della lotta al vertice di questi mesi. In realtà, esiste una linea di faglia più profonda, che disegna uno scontro ancor più decisivo tra poteri internazionali. In questo conflitto capitale troviamo per un verso i sostenitori di una “normalizzazione” delle politiche economiche, al fine di rilanciare i tassi d’interesse e le rendite finanziarie dei creditori. Sono i nostalgici del periodo glorioso che precede la grande recessione internazionale del 2008. Era l’epoca in cui i tassi d’interesse medi al netto dell’inflazione ancora veleggiavano al di sopra del tre percento. Grazie a quelle cifre, in gran parte del globo, i capitalisti finanziari mangiavano quote enormi di prodotto interno lordo. Se tornare a quella fase vorrà dire scatenare nuove crisi del debito e nuova disoccupazione, poco importa. L’essenziale è che i creditori tornino a respirare e a godersela. Il presidente della Bundesbank, Joachim Nagel, è la maschera perfetta di questi normalizzatori.

Dall’altro versante della grande contesa ci sono gli apologeti di un nuovo keynesismo protezionista e militare, seguaci della guerra e dell’inflazione come fattori di rinnovamento del profitto capitalista. Sono gli esponenti della nuova coscienza infelice del capitale, ormai rassegnati all’idea che nel declinante ovest del mondo sia difficile tirar su i guadagni dal lato delle rendite finanziarie e che si debba pertanto agire da un altro lato. La tesi di questi è che il tempo in cui si poteva guadagnare concedendo prestiti e girandosi i pollici è finito. Siamo ormai in piena fase imperialista, in cui la competizione tra capitali scivola inesorabilmente nello scontro militare. Bisogna quindi chiudere le frontiere dei commerci e spostare risorse pubbliche verso l’investimento nelle tecnologie belliche. E se l’effetto finale è inflazionistico e i tassi d’interesse netti tornano a scendere, ben venga. I capitalisti che fanno i prezzi avranno solo da guadagnarci. Basterà stringere ancor più il guinzaglio attorno alle rivendicazioni salariali. Il capitano ideale di questa truppa di potenti visionari è Mario Draghi.

Tra questi grandi ospiti dei vari vertici informali esiste una precisa gerarchia strutturale. Per intenderci, la contesa tra Nagheliani e Draghiani, se così si può dire, è quella che sta tirando realmente i fili della politica internazionale. Comparativamente parlando, Orban, Zelenskyj e gli altri ospiti di Cernobbio sono soltanto marionette in scena.

(Emiliano Brancaccio, il manifesto, 7 settembre)


Sulla prima pagina del Corriere della Sera il Forum di Cernobbio, con le parole di Giorgia Meloni: "Non abbandoneremo Kiev. Così si prepara la pace" ... e una vignetta di Giannelli (8 settembre 2024)









Zelensky: "Un pacchetto di deterrenza sarà importante per mettere fine alla guerra" ... (Il Corriere della Sera, 8 settembre 2024)










Per il Corriere "Un caso le parole di Borrell "l'Italia permetta a Kiev di colpire la Russia" ... Sottotitolo: ""Gentiloni con Meloni" ... (8 settembre 2024)



Oggi, sulla prima pagina del quotidiano del Gruppo GEDI, La Stampa, ampio spazio al Forum Ambrosetti di Cernobbio. Titolo di apertura dedicato a Letta e sottotitolo a Salvini. L'ex Premier: "Dobbiamo seguire Draghi" ... (9 settembre 2024)
  








Enrico Letta: "Usiamo il MES per le spese della Difesa, è il modo per superare lo stallo" ... (9 settembre 2024)












Per il giornale di Torino e della Famiglia Agnelli - Elkann "Il Vice Premier archivia il nodo previdenza" ... e il Ministro "Urso promette battaglia a Bruxelles sullo stop ai motori endotermici nel 2035: anche la Germania è con noi" ... (9 settembre 2024)









"Josef Borrell, titolare UE per gli affari esteri e la sicurezza, va di fretta, ma è disponibile a condividere alcune riflessioni" scrive La Stampa, che titola: "La pace la deciderà Kiev. L'Italia divisa sulle armi? Conta la parola di Meloni" ... 



5 commenti:

  1. Vero, tutti fatti nostri.
    Usciamo dal provincialismo!
    s.

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  2. Trovo tutti gli articoli molto interessanti. In particolare mi sembrano meritevoli di impegno gli obiettivi che Di Francesco indica come base per un possibile cessate il fuoco: ritiro di Mosca dai territori occupati, autodeterminazione del Donbass, Crimea russa, neutralità rispetto alla Nato. Poi Brancaccio mi pare inviti tutti noi a dare le giuste responsabilità a politici e altissime personalità del mondo finanziario e imprenditoriale europeo. Questo è il momento perché tutti noi ci Sbilanciamo! Se non ora, quando?
    WM

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  3. Quando parli di uomini del passato penso a Letta e Draghi, a Barnier. È pur vero che le donne del presente non sono molto meglio, almeno se penso ad Ursola Von der Leyen o Giorgia Meloni e Marine Le Pen. Ed anche Elly Schlein, da segretaria pd, non mi pare abbia mantenuto le promesse e le speranze suscitate un anno fa. Lo dico con tristezza.
    Dunque vale la pena pensare ed agire.
    Anna

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  4. Draghi??? No grazie.
    Il progetto di finanziare con risorse comuni dell'UE maggiori spese militari dei singoli stati non mi convince. Perché se la motivazione è la sicurezza dell'Europa si può e si deve pensare subito ad un comando integrato ed unico delle FFAA, con i relativi risparmi sulle spese oggi fatte nazione per nazione.
    Mentre ciò che lui privilegia è il mantenimento di uno status di competizione tra gli Stati sotto la guida della Alleanza Militare Usa.
    Non mi convince affatto.
    Ciao!

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  5. Povera Europa!
    Unita nelle armi a Zelensky litiga sulla Commissione. Con il PD che plaude Draghi e approva Fitto ma non deleghe esecutive.
    Boooh.

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