Il Partito del PIL torna di attualità. Dopo il primo lancio a Torino con le manifestazioni delle “madamine” pro TAV il PdP, adesso torna ad essere evocato sulle drammatiche vicende dell’ILVA. La fuga di Ancelor Mittal sarebbe colpa di chi ha tolto lo scudo.
Sul banco degli accusati c’è il partito della decrescita, si dice, trascurando la disponibilità del governo a reintrodurlo. Assolvendo, così, chi, all’aggravarsi della crisi del settore siderurgico, vorrebbe rispondere col dimezzamento dei dipendenti dell’acciaieria italiana.
Un’opzione, questa, che governo e sindacati non potrebbero certo subire passivamente ad un anno dall’accordo che doveva siglare il salvataggio dell’importante polo siderurgico.
Questo sarebbe il partito del PIL secondo una folta schiera di opinionisti che vivono nei talk show, che influenzano l’opinione pubblica e che fanno parte di un fronte ampio che va dalla Lega al Partito Democratico. Come mai, allora, questo Partito del PIL non nasce e, per chi pensa esso possa essere l’ultima creatura di Renzi, non decolla?
A questa domanda cerca di rispondere un articolo di Luca Ricolfi (Il Messaggero, sabato 16 novembre). Più precisamente, si chiede l’autore, perché, pur essendo questo arco di forze, più forte di quanto non suggerisca il balbettio delle forze politiche, esso non trova una espressione di governo adeguata? Non basta la prima risposta fornita e cioè che la forza maggioritaria in parlamento, il M5s, sarebbe il partito della decrescita. C’è dell’altro dice Ricolfi. C’è in sostanza il fatto che sia la Lega che il PD hanno una forte componente assistenziale, che ambedue promettono minori tasse, ma che in sostanza le vogliono ottenere con più deficit perché, nel modo di fare politica, prevale l’ideologia.
Quindi, è in sostanza la conclusione, il partito del PIL a breve non ha futuro perché sia PD che Lega non hanno più la crescita nel loro Dna. E non ce l’hanno semplicemente perché posseduti da due perfidi demoni: incapacità di ridurre le tasse sui produttori e tendenza a comprare il consenso con nuove spese.
Suggestioni come sempre interessanti quelle di Ricolfi. Che richiederebbero risposte e giustificazioni da parte di chi il partito del PIL lo ha sostenuto e lo persegue. A chi, invece, non vede un futuro radioso né per il PIL né per i suoi sostenitori e sostiene, al contrario, che occorra andare oltre il PIL e verso nuovi misuratori ed obiettivi di benessere, sia consentito porre qualche interrogativo.
Ma se un partito del PIL non nasce, né in Italia né altrove, non sarà che tutti sentono che il PIL non ce la fa più a crescere se non in minor misura e che dunque oggi il primo problema è come si distribuiscono la ricchezza accumulata e quel poco di PIL che si produce? E non sarà che il problema oggi non è quello di fare una nuova guerra ideologica tra fautori della crescita e fautori della decrescita, ma di lavorare a una riconversione del pensiero economico e sociale e della stessa cultura dell’informazione nella nuova era digitale? Sarebbe meglio allora, nella difficile fase che stiamo vivendo, costruire una transizione che sappia governare il lento ed inevitabile declino del PIL perché esso cresca riducendo i danni (che talvolta alimentano, paradossalmente, il PIL ) e le disuguaglianze che genera in parallelo alla crescita. Così da far aumentare l’attenzione verso i problemi concreti del benessere sociale, delle comunità umane. E dedicare maggiore attenzione ai problemi della scuola e di una formazione che vada oltre il censo e lo status dei genitori, di una cura della salute egualitaria per le persone e sostenibile per i territori.
Naturalmente solo per avviare una discussione, a me non dispiace che non nasca un partito del Pil oggi. Penso anche sia più grave che né i politici, né gli economisti riescano a rompere il muro che impedisce di guardare oltre.
Aldo Carra, il manifesto, 19 novembre
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