venerdì 13 marzo 2020

Da casa, pensiamo ... (2)

Pensiamo alle "Raccomandazioni di etica clinica per l'ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili".
Un documento pubblicato il 6 marzo scorso dalla Società degli anestesisti e rianimatori. Medici ed operatori impegnati da settimane, giorno e notte, per salvare vite in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e progressivamente nelle altre regioni d'Italia.
Merita una lettura attenta lo scritto di uno dei più autorevoli storici e sociologi italiani.


"Siamo ad un cambiamento radicale di sguardo e di progetto". Scrive Marco Revelli ...



















Alla velocità della luce siamo arrivati a una sorta di ground zero.
La decisione del governo di trasformare l’intero Paese in un’unica, grande «zona rossa» – di arrestare così la vita sociale ed economica per salvare la vita biologica – ne è l’emblema.
Nell’arco di meno di una settimana il mondo consueto in cui vivevamo si è rovesciato, e siamo regrediti, d’un balzo, a un grado zero non solo dell’attività – dei movimenti, del lavoro, della produttività – ma della relazionalità. E anche, vogliamo dirlo? della civiltà. È quanto accade quando repentinamente la politica si rivela come bio -politica. E più che le regole umanizzate della Polis valgono quelle elementari della sopravvivenza, del Bios.
Il fatto che il provvedimento preso appaia al tempo stesso terribile e ragionevole – un ossimoro – ci dice quanto a fondo in effetti il male sia arrivato a toccarci «nell’osso e nella carne» (per usare le parole che, nel libro di Giobbe, il satana rivolge a dio), polverizzando d’un colpo ogni nostra consolidata abitudine. Ogni precedente «pensato» orientato alla convivenza civile in un «sistema sociale», travolto dalle nuove pre-umane, dis-umane, regole dei «sistemi viventi».

Il documento pubblicato pochi giorni fa (il 6 marzo) dalla Società degli anestesisti e rianimatori col titolo di per sé inquietante, «Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili», è da questo punto di vista esemplare. I medici impegnati in prima linea ci dicono, in poche parole, che «può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva».
In presenza di un afflusso superiore alle possibilità di ricovero la selezione tra chi salvare e chi no avverrà con criteri anagrafici e biologici, anziché in base al puro (e casuale) ordine di arrivo («first come, first served»). «Non si tratta di compiere scelte meramente di valore – precisano – ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone». Lo mettono nero su bianco per venire in soccorso alla disperazione etica di chi, sul terreno, è chiamato a scegliere tra «sommersi e salvati». Per non farlo sentire solo di fronte a una responsabilità «dis -umana». E lo fanno evocando l’«etica delle catastrofi» e, appunto, principii da stato d’ eccezione, consapevoli degli scenari d’altri tempi che quel pensato fino a ieri impensabile può evocare (per la mia generazione è inevitabile rivedere sullo sfondo del nostro triage la rampa di Auschwitz dove avveniva appunto l’erste Auswahl, l’orrenda «prima selezione» in base alle condizioni fisiche e anagrafiche dei nuovi arrivati per «decidere» se mandarli ai forni o al lavoro). Per tutte queste ragioni quello resta un documento umanissimo e disumano insieme.
Agghiacciante (per le sue implicazioni ultime) e comprensibile, per le sue ragioni immediate.
Per la terribile «forza delle cose» che lo muove.
È l’applicazione di un’impietosa «razionalità strumentale» (quella che impone di massimizzare i risultati con le risorse disponibili) a una realtà che riduce la pietà a un lusso che non ci si può (più) permettere.
Merita – voglio sottolinearlo – il massimo rispetto, per le caratteristiche di chi l’ha redatto e di coloro cui è diretto: le persone che per professione operano in prima linea, quotidianamente, con rischio, sul fronte estremo della vita e della morte. Su di loro ogni giudizio critico sarebbe ingiusto.

Se un’osservazione mi permetterei di fare, invece, non è tanto su quanto il documento dice, ma su quanto non dice. In esso lo «squilibrio tra necessità e risorse disponibili» è dato come un presupposto di fatto. Una sorta di dato di natura, come il virus in fondo. Così però non è. Se i posti in rianimazione sono scarsi, è perché qualcuno (decisori pubblici, politici di governo, poteri economici nazionali e internazionali, opinion leaders, operatori dell’informazione) ha deciso così per anni. Se in Italia ne abbiamo 5.000 di contro ai 28.000 della Germania e agli oltre 20.000 della Francia, è in conseguenza di scelte: quelle che hanno portato in dieci anni a negare 35 miliardi dovuti alla Sanità e a tagliare 70.000 posti letto.
Se i nostri rianimatori sono costretti ad affrontare «dilemmi mortali» è perché altri, sopra di loro, o intorno a loro, hanno determinato la scarsità che obbliga e rende feroce la selezione.

Questo dovrebbe concludere un’osservazione razionale che si sollevasse al di sopra del campo «professionale» e giudicasse con uno sguardo «generale» o, appunto, «generalmente umano». In questa luce anche il virus probabilmente si «umanizzerebbe». Non nel senso di diventare meno feroce. Ma di rivelare quella specifica ferocia tipica di noi «ultimi uomini». Di offrire davvero, come aveva intuito Susan Sontag, la malattia come metafora di una condizione umana e sociale. In fondo, la sua logica selettivamente darwiniana in base alle chances di sopravvivenza, non è la stessa che almeno un paio di decenni di egemonia neoliberista ci hanno inculcato con il principio di prestazione, dichiarando inutili gli improduttivi (i «vecchi», in primis) e meritevoli i vincenti?L’isolamento cui ci obbliga, la rottura dei legami che impone come autodifesa, non è il programma thatcheriano della cancellazione della società in nome dell’individualismo estremo fatto codice genetico? Lo stesso crollo dei mercati finanziari sotto l’urto del morbo e della paura, non è il segno di quella fragilità strutturale del finanz-capitalismo a suo tempo denunciata dai pochi «gufi»? In medio stat virus, vien da dire. Nel senso che è quello il microscopico luogo geometrico in cui precipitano e si rivelano tutte le linee di crisi del nostro tempo.

Quando tutto questo sarà finito, dovremo ben ripensare l’intero nostro universo di senso, a cominciare dall’insostenibilità del dispositivo egemonico che sembrava fino a ieri immortale. E per farlo servirà anche a noi un cambiamento, radicale, di sguardo, linguaggio, categorie e progetto.
Marco Revelli, il manifesto, 11 marzo 2020

18 commenti:

  1. "se in Italia ne abbiamo 5.000 di contro ai 28.000 della Germania e agli oltre 20.000 della Francia" mi pare il dato centrale del discorso.
    in italia non è stato curato il principio costituzionale della salute.
    ora dobbiamo collaborare per vincere la guerra al virus, stando a casa (i sani) e installando ospedali d'emergenza (per chi soffre)............. poi dobbiamo ridiscutere insieme dove mettere i soldi che paghiamo per uno stato amico.
    v.

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    1. Si. Da casa, pensiamo ...
      Di fronte al dramma che viviamo "ridiscutere" tutto è un impegno morale prima ancora che politico.
      Sanità, servizi, infrastrutture, produzioni. Questi mesi di emergenza e di lutto indicano l'esigenza di una svolta radicale nello sviluppo del Paese, nell'organizzazione delle comunità.
      Gianni

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  2. Facendo il verso all' assessore alla cultura del Comune di Bologna, ho la "percezione" che, passata la paura, per una "grande ripartenza" (cit. ex premier Renzi) si sfrutterà l' alibi del rilancio economico per buttarsi nella forma più comoda: strade, autostrade, aeroporti e tante infrastrutture a base di asfalto e cemento. Con buona pace e in deroga ai Pums, Prit, Pair, Poc e delle svolte di riconversione green e attuazione dei principi di ecosostenibilità.
    Pessimismo legato allo stato d' animo del momento o realistica consapevolezza che da noi i sogni non si possono fare?

    Ryan

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    1. Se prevalessero le (imprevidenti) pratiche del passato sarebbe indice di una incredibile incapacità (collettiva) di analisi, di riflessione, e di correzione dei limiti della crescita che oggi sono di fronte a noi: strutture e servizi sanitari sottostimati; prevenzione assente o carente; risorse male investite e insufficienti.
      I fatti sono macigni, gli argomenti non mancano, nuovi progetti vanno concordati.
      Gianni

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  3. Concordo, l'imprevidenza per la mancanza di adeguate strutture sanitarie ed ospedaliere non non è certamente addebitabile agli operatori che in questa situazione fanno quel che possono. Ed il documento degli anestesisti è solo un aiuto ad affrontare le difficili scelte che si impongono ai medici.
    Piuttosto che la lezione serva a cittadini e governi per il futuro!
    L.

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  4. Da casa, penso che:
    - la gestione della sanità italiana vada decisamente rivista; se sono in sofferenza Lombardia ed Emilia che sono considerate le eccellenze nazionali c'è da allarmarsi: e se il corona-virus esplode al sud?
    - l'Italia intera debba contribuire di più all'emergenza in Lombardia; se la Cina ha vinto il corona-virus a Wuhan è perché ha mandato là alcune decine di migliaia di medici ed infermieri e costruito ospedali in pochi giorni: qui non mi pare che questa mobilitazione sia scattata ed ogni regione e paese pensi prevalentemente al proprio futuro;
    - paghiamo così un individualismo, un nazionalismo, un municipalismo esasperati; naturalmente alimentati da quelli che: padroni a casa nostra e autonomia differenziata subito. Ridicolo e illusorio.
    Questo è un mondo in cui ci si salva solo tutti insieme!
    Carlo

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    1. Di fronte al dramma, appaiono prime riflessioni autocritiche.
      Il Ministro Francesco Boccia, PD, in una intervista pubblicata su la Repubblica di ieri: "si sono fatti tagli dove non andavano fatti. Fino ad un mese fa pensavamo che 5300 posti di terapia intensiva fossero un lusso, ora scopriamo che potremo salvarci, forse, se arriviamo a 15mila". E ancora: "il problema sono i ventilatori, i monitor ed il personale medico in grado di fare funzionare i posti letto".
      Ora dalle parole ai fatti.
      Il tempo per cambiare priorità e scelte negli investimenti è questo.
      Gianni

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    2. Apprezzabile Boccia.
      Non altrettanto Venturi, "tecnico" della (ex) Giunta Bonaccini ed attuale commissario straordinario emiliano al corona virus, perché lui che ha praticato per almeno 5 anni silenzioso (volente o nolente) i tagli ai posti letto ospedalieri, ora alza la voce contro i pochissimi cittadini ancora in giro in una città quasi fantasma e ligia al rispetto delle indicazioni fin qui prese.... Consideri poi che ci sono persone che debbono pur muoversi, sempre per ragioni sanitarie.
      DG

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  5. Pure io da casa penso che nel nostro paese abbiamo curato troppo poco le cose più importanti. Perché così pochi posti di terapia intensiva rispetto a Francia e Germania? Perché così poca attenzione al crescere dello smog nelle città? Perché nessuna educazione ambientale e al pronto soccorso nelle scuole e sui luoghi di lavoro?
    Ed ora troppa confusione a partire dai vertici istituzionali: Milano chiude si e no, mascherine utili si o no.......
    Mio nonno continua a dire di contare fino a 10 prima di parlare.
    s.

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  6. Con almeno 30000 contagiati Covid19 e quasi 2000 morti ci sono ancora medici che operano senza mascherine. Eppure ci hanno raccontato che abbiamo una sanità all'avanguardia tanto in Lombardia quanto in Emilia. Ora Ferragni e Fedez contribuiscono a realizzare nuovi 200 posti di terapia al San Raffaele e viene richiamato il commissario straordinario Bertolaso per implementare nuove soluzioni.
    Peggio ancora la Francia che con oltre 5000 infetti e 120 decessi svolge le elezioni amministrative.
    Peggio ancora la Gran Bretagna dove il capo del governo dice di prepararsi a perdere familiari ma non assume iniziative di sorta.
    Va mo là

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    1. Spesso i fatti non si possono archiviare, come succede per tante parole.
      E qualcosa, forse, sta cambiando nel mondo e in Italia.

      Quel che è certo è che le "nostre" classi dirigenti si sono mostrate gravemente impreparate ... poi troppo a lungo incerte e contraddittorie.
      Ma occorre, infine, prendere atto che da più parti (da ogni parte? sarebbe troppo dirlo ora) ci si è mossi. Bene.
      Occorre attrezzarsi, adeguarsi. Cambiare approccio, visione e priorità nel governo dei processi produttivi, sociali, per l'ambiente e la salvaguardia della biodiversità.
      Dunque di fronte all'emergenza, ma ben oltre: per il futuro, per essere, tutti insieme, più sicuri!
      (Altro che "apriamo tutti i cantieri" come dice qualche stolto ex Presidente del Consiglio)
      Gianni

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  7. Penso al povero Luca Tacchetto.
    Dopo essersi liberato dalla prigione..... eccolo qui, tra noi.
    Sic

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    1. Fossi in Lui, sarei comunque contento di affrontare questa nuova sfida. Impegnativa ma da persona (più) libera.
      Gianni

      PS. Non dimentichiamoci di altri italiani rapiti o "scomparsi" nel mondo. Di Patrick Zaki e tanti carcerati in paesi oppressi da regimi militari e sistemi autoritari.

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  8. Tutte considerazioni ragionevoli. Che fanno pensare.
    Aggiungo due elementi che trovo drammatici.
    Tra i 30000 contagiati ci sarebbero 2400 operatori ospedalieri, l'8%.
    In una grande città del sud 50 operatori si sarebbero dati assenti.
    Potremmo dire grandezza e miseria di questo paese.
    Antonio

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  9. Se i medici hanno una responsabilità è quella di non avere denunciato con la giusta forza i limiti e gli sprechi della nostra sanità. Ma il problema è soprattutto di chi non ha saputo considerare il mutare dei pericoli alla salute umana dovuti alla globalizzazione. Politici di governo e manager delle ASL nonché proprietari della cliniche private. Sai gli affari che hanno fatto all'ombra dei vari Formigoni........
    W.V.

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  10. Sull'artico li Revelli è intervenuto Carlo Saitto, medico. Per opportuna conoscenza.
    M.

    Non c’è dubbio che l’epidemia di Coranavirus (CoViD19) imponga l’esigenza di «ripensare l’intero nostro universo di senso» – come ha scritto Marco Revelli l’11 marzo in un articolo denso di riflessioni – e che sia necessario un «cambiamento, radicale, di sguardo, linguaggio, categorie e progetto». Credo serva un nuovo sguardo anche su alcune considerazioni che Revelli propone a proposito del dilemma etico di una sanità che sarebbe chiamata dall’emergenza a scegliere chi curare perché le risorse disponibili sono scarse.
    È vero in Italia, da molti anni, le risorse assegnate al sistema sanitario pubblico sono insufficienti, lo sono in termini assoluti in Italia con una delle spese sanitarie pubbliche più basse in Europa e lo sono sempre più in termini relativi a fronte di una popolazione che invecchia e a fronte di uno sviluppo tecnologico che incrementa costantemente l’armamentario terapeutico e i suoi costi.
    È vero, lo dicono i numeri che descrivono anche un sistema salute nel quale crescono le disuguaglianze e nel quale orientare la spesa verso i bisogni è reso sempre più difficile da una logica e da un senso comune commerciale, economicista, neoliberista.
    Ma forse la cosa va pensata in modo diverso: problemi etici, sono indipendenti da qualsivoglia carenza e non sono risolti dall’abbondanza, non nascono dal mercato ma, al contrario, dalle politiche di welfare e dal tentativo di costruire un sistema universalista. In un sistema di mercato, un sistema di individui e di compratori «informati», chi ha le competenze e le risorse si procura i servizi, chi ne è sprovvisto aspetta il suo turno e l’eventuale beneficienza. In un sistema universalista, e quindi in un sistema di diritti, si crea invece, immediatamente una tensione tra il diritto del singolo alla cura e il diritto della comunità alla tutela.
    Qualunque sia l’ammontare di risorse disponibili, se non si commisura il trattamento alla sua efficacia e se non ci si pone costantemente il problema di quel portatore di bisogno che non è ancora arrivato ma che potrebbe arrivare, talvolta proprio in ragione di quello che facciamo (o che non facciamo), si genera disuguaglianza e la disuguaglianza gioca generalmente a favore di chi più ha e più sa. In ogni momento infatti, a prescindere dalle loro dimensioni, le risorse a disposizione sono finite e, in ogni momento, verranno ripartite secondo criteri, impliciti o espliciti, che soddisferanno in modo differenziato bisogni diversi.

    (continua)

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  11. (continua, Saitta su Revelli)
    ...
    Rendere espliciti questi criteri ne consente la valutazione e consente di esprimere un giudizio sul loro valore. Il diritto individuale può dunque entrare in conflitto con quello della comunità ed è un conflitto che si apre anche sulle cose più semplici e più facilmente disponibili come una visita oculistica o un accertamento radiologico e bisogna decidere se sia opportuno privilegiare o promuovere criteri che proteggano l’uguaglianza nel diritto alla salute.
    Criteri che operino tutti i giorni perché ogni giorno, e non solo quando arriva l’epidemia di CoViD19, questa uguaglianza viene messa in discussione. In termini elementari: non è il neoliberismo a porci il problema della selezione poiché accetta la disuguaglianza all’interno della sua sfera etica e non è l’abbondanza a risolverlo, perché il problema si ripropone a qualsiasi livello di disponibilità delle risorse.
    Il dilemma è invece totalmente interno all’aspirazione, non raramente conflittuale, di conciliare l’interesse del singolo con quello della collettività. In questo contesto se con i provvedimenti che mirano a contenere l’epidemia «… siamo regrediti, d’un balzo, – come scrive Revelli – a un grado zero …. della relazionalità. E anche, vogliamo dirlo? Della civiltà» e se «la politica si rivela come bio-politica. E più che le regole umanizzate della Polis valgono quelle elementari della sopravvivenza, del Bios», non siamo in realtà di fronte ad una situazione straordinaria, se non da un punto di vista quantitativo e assistiamo invece a una ennesima manifestazione della tensione forse irrisolvibile tra protezione e controllo, una tensione che accompagna la sanità pubblica dalla sua nascita.

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