sabato 7 giugno 2025

Quelli del Si ...

Da Bologna: "Votare è un diritto, un dovere, un privilegio" ... "La mia amica Sadaf ..."










Che succederà ai referendum? L'astensione dal voto sollecitata da grande parte del potere economico, politico ed istituzionale del Paese si salderà con la disaffezione già ampiamente praticata nelle elezioni comunali e regionali, per Camera e Senato, per il Parlamento Europeo? E' prevedibile. E "sarebbe il più grande successo recente del capitalismo: una chirurgica opera di distruzione della partecipazione democratica" ...

Ancora una volta Emiliano Brancaccio argomenta in modo convincente le ragioni di una mobilitazione e di un impegno che meritano di essere sostenute. E altrettanto fa Filippo Berselli motivando la convinzione che "l'accesso alla cittadinanza produce inclusione" ... 

Per chi ha dubbi ed è interessato al confronto, imperdibili.


Cartelloni elettorali per i referendum dell'8 e 9 giugno 2025 ...









La flessibilità ha fallito e nessuno più la difende 

di Emiliano Brancaccio

Una vittoria dei Si al referendum aiuterebbe ad affrancare milioni di lavoratori dalle angustie del precariato e degli appalti selvaggi. Eppure disinteressati al dibattito politico, molti di quegli stessi lavoratori potrebbero disertare le urne. Se questo paradosso si verificasse, sarebbe l’ennesima prova del più grande successo recente del capitalismo: una chirurgica opera di distruzione della partecipazione democratica.

Che i nemici del referendum abbiano puntato tutto sull’astensione non deve meravigliare. Uno dei motivi, poco indagati eppure rilevantissimi, è che l’ideologia della flessibilità del lavoro non è più dominante come un tempo.

Qualche anno fa, il dibattito referendario sarebbe stato monopolizzato dagli alfieri del liberismo. Gli apologeti del lavoro flessibile avrebbero declamato le magnifiche sorti e progressive dei contratti a termine e degli appalti deregolati. Avrebbero presentato la precarizzazione come anticamera di un mondo di alti salari e benessere diffuso. Avrebbero additato i promotori del referendum come preistorici incapaci di cogliere il potenziale del nuovo capitalismo, finalmente liberato dai lacci della regolamentazione.

Viceversa, nel dibattito di queste settimane i propagandisti del «precario è bello» si sono visti davvero poco. A riabilitare un po’ il mantra della flessibilità ci hanno provato timidamente Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera e pochi altri. Ma rispetto alle fanfare del passato, la retorica liberista appare molto più dimessa.

Come si spiega un tale arretramento ideologico? Per quale ragione i temi del liberismo economico non vengono più agitati con la medesima spocchia di un tempo?

Un motivo rilevante sta nel cosiddetto esame di realtà. L’evidenza scientifica di un intero trentennio ha smentito tutte le tesi dei precarizzatori. L’esempio più lampante è la vecchia idea secondo cui la flessibilità avrebbe aumentato l’occupazione. Questo antico cavallo di battaglia del liberismo si è rivelato una vera e propria truffa ideologica.

Basti notare un fatto: nell’ultimo decennio rilevato, l’88 percento delle pubblicazioni su riviste accademiche internazionali mostra che la precarizzazione non stimola affatto le assunzioni e che le tutele non aumentano i disoccupati. Il dato è così cristallino che i più autorevoli propugnatori della deregulation sono stati costretti a riconoscerlo. La Banca Mondiale ha ammesso che «l’impatto della flessibilità del lavoro è insignificante o modesto». Il Fondo monetario internazionale ha confessato che le deregolamentazioni del lavoro «non hanno effetti statisticamente significativi sull’occupazione». E l’Ocse ha preso atto che le cosiddette riforme del lavoro hanno avuto «un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione».

Insomma, quando Renzi e i suoi si beavano del fatto che dopo il Jobs act l’occupazione era aumentata, dimenticavano di segnalare che nei paesi in cui la precarizzazione non era cresciuta l’incremento dei posti di lavoro era stato maggiore. Il valore scientifico dei loro proclami valeva dunque quanto quello del proverbiale stregone: che con le sue danze tribali si vanta di portar la pioggia.

Ma allora, se i contratti precari non creano occupazione, quali sono i loro reali effetti? Anche su questo punto l’evidenza scientifica è ormai nitida. La ricerca oggi prevalente indica che la flessibilità rende i lavoratori meno sindacalizzati e più docili, e per questa via deprime i salari, peggiora le condizioni generali di lavoro e deteriora la sicurezza e la salute dei dipendenti.

Quando pure le grandi istituzioni mondiali ammettono che la precarietà non porta l’annunciata bengodi, non meraviglia che i liberisti della nostra provincia si ritrovino orfani di argomenti.

Anche per questo motivo Meloni e gli altri nemici del referendum hanno preferito una diserzione silenziosa: non spiegare, non motivare, non entrare nel merito, al limite recarsi in punta di piedi alle urne adottando l’espediente un po’ vigliacco di non ritirare le schede.

Se gli apologeti del precariato verranno sorpresi da un’inattesa partecipazione democratica, sarà per loro un duro colpo. A date condizioni, potrebbe rivelarsi la scintilla di una nuova fase della lotta di classe, in Italia e non solo.

(il manifesto, 7 giugno 2025)


Volantino per il referendum dell'8 e 9 giugno sulla Cittadinanza ...









Nessun privilegio ma un ostacolo da rimuovere 

di Filippo Barbera

Con la vittoria dei Si al quinto referendum, il requisito di residenza continuativo per gli stranieri extracomunitari maggiorenni che desiderano ottenere la cittadinanza italiana scenderà da 10 a 5 anni. la legge attuale non è neutra: frena, penalizza, esclude, blocca. 

Cambiarla non significa fare un favore o elargire un privilegio, ma rimuovere un ostacolo inutile e ingiusto che crea «italiani a metà» per richiamare il titolo del libro di Roberta Ricucci. Perché questo è il primo problema che una vittoria al sì contribuirebbe a risolvere. Un’anomalia italiana: siamo il Paese con una normativa tra le più restrittive in Europa. Francia e Germania richiedono 5 anni di residenza per la naturalizzazione, mentre l’Italia ne richiede 10.

Si smetterebbe così, almeno in parte, di penalizzare una fetta consistente di persone che vivono e lavorano in Italia e non – come la destra suggerisce – conferire un diritto «speciale», se non un vantaggio, riservato a pochi. Una normalizzazione che interesserebbe persone che hanno amici italiani, lavorano con noi o per noi, a volte sono ospiti a casa nostra, o con i quali condividiamo gioie e preoccupazioni per i figli che crescono. Persone, però, che non hanno la cittadinanza italiana, che non godono dei nostri stessi diritti e che non beneficiano dell’appartenenza piena alla comunità. Tra questi, anche molti giovani nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri che si trovano in una sorta di limbo legale. Situazioni che possono trovare equilibri locali fortunati in relazione alle politiche locali, alla forza sana del tessuto civile e imprenditoriale, alla presenza di tradizioni sociali più o meno consolidate, come racconta nei suoi lavori Tiziana Caponio che ha studiato a lungo il tema.

Le persone che beneficerebbero di una vittoria del sì hanno costruito qui la loro vita quotidiana, relazioni, affetti e progetti per il futuro. Ci hanno dato fiducia, hanno modellato la loro identità in relazione alla nostra. Si sono adattate alle nostre istituzioni e leggi, ai nostri usi e costumi. Imparato la nostra lingua e studiato la nostra storia. Accettato le nostre idiosincrasie e pregiudizi. Apprezzato la nostra amicizia e collaborazione. La posta in gioco, dunque, è anche politica. Anche più dei quesiti referendari sul lavoro, questo referendum raccoglie consensi trasversali che tracciano una sorta di linea di «resistenza civile» che va dal mondo cattolico, a quello liberale agli elettori di sinistra. Dire sì significa anche riconoscersi in un minimo comune denominatore che non si accontenta di essere «non fascista», ma è apertamente ostile al nazionalismo becero e retrogrado che contraddistingue l’azione della destra al potere.

Con il sì al referendum possiamo rifiutare la malsana idea che la cittadinanza debba essere concessa solo a chi dimostra un «reale» legame con l’Italia Da noi, infatti, l’accesso alla cittadinanza resta subordinato a una logica paradossale: devi essere già «integrato» per diventare cittadino. E più lunga è l’attesa – «dopo dieci anni di residenza continuativa legale» – più si è degni di ricevere la cittadinanza. Una metrica bizzarra e priva di fondamento, che decenni di senso comune di destra hanno sedimentato nella narrazione pubblica, a prescindere dai governi e dai ministri. La ricerca scientifica dice l’opposto: è ottenere la cittadinanza a generare integrazione, non viceversa. E più velocemente si ottiene, prima inizia il percorso di integrazione. Non esiste un tempo giusto «che deve passare»: perché dieci anni e non otto? Oppure quindici? O tre? È una scelta politica, che lancia un segnale morale: «noi» siamo i buoni a cui gli «altri» devono dimostrare di assomigliare. Come per la povertà, devi essere «meritevole» per poter ricevere. Solo che porre un lungo apprendistato per diventare italiani come prerequisito per la concessione della cittadinanza (di questo si tratta, non di automatismi tipo ius soli), è in palese contraddizione con ciò che la ricerca ha ampiamente mostrato. Sono ormai numerosi gli studi a sostegno del fatto che chi ottiene la cittadinanza lavora di più, guadagna di più, ha maggiore fiducia nelle istituzioni e migliori risultati scolastici (su questo rimando a Camilla Borgna, Studiare da stranieri, Il Mulino). Non si tratta di un’opinione. Le ricerche sono solide e convergenti: l’accesso alla cittadinanza produce inclusione.

La cittadinanza non è un premio, ma un diritto frenato da sbloccare. Nelle ore che mancano al referendum, a ogni potenziale non votante bisogna chiedere: perché vuoi che persone che parlano la tua stessa lingua, a volte il tuo dialetto, e hanno le tue stesse aspirazioni, non si sentano italiani a pieno titolo?

(il manifesto, 7 giugno 2025)


Natangelo su il Fatto Quotidiano ... (6 giugno 2025)








Vauro su il Fatto Quotidiano ... (5 giugno)




Donne per il Si manifestano davanti al Sacrario dei Caduti partigiani in Piazza del Nettuno a Bologna ... (5 giugno 2025)








Ragazze e ragazzi: "Diamoci un bel 5 di Si" ... (5 giugno 2025)














"Partecipazione è la nuova Resistenza"!

10 commenti:

  1. Giusto!
    "Quelli del Si" che a volte sono anche quelli del No.
    Una chiara smontatura della narrazione secondo cui "Quelli" che ai sono autodefiniti tante volte "del Si" - dalle madamine Si TAV a industriali a Salvini, a calendiani, renziani, bonacciniani - questa volta sono "per il NO". O meglio i più - ci perdonino Azione, Italia Viva e minoranza PD - per in NON voto. Per la NON partecipazione!
    Del resto sappiamo che se in Italia c'è ancora ingiustizia sociale, tanto inquinamento e una democrazia dimezzata e mal messa molto è dovuto a poteri economici e politici.
    DG

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  2. Si, si, si, si, si.
    s.

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  3. In effetti sarebbe molto importante riconquistare per l'intero corpo elettorale la possibilità di incidere sulle politiche del lavoro e di cittadinanza.
    Con assemblee di rappresentanza decise spesso da risicate maggioranze di minoranze il peso delle lobby più potenti verrebbe almeno un poco ridimensionato. Viceversa sarebbe un altro duro colpo alla credibilità della democrazia costituzionale.
    Ciao!

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  4. Votato. Come da raccomandazione.
    ☆☆☆

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  5. Capisco Cgil e sindacati di base che votano si, per ragione sociale e di civiltà.
    Non mi convince la Cisl che mi pare non lo faccia.
    Capisco Renzi che vota 4 no e un si. Lui il Job Act lo ha voluto e lo difende.
    Non mi piacciono le minoranze del PD che votano differenziato. Non mi convince sia una questione di merito.
    Capisco Meloni e amici per il non voto, loro possono decidere e fare.... per la delega ricevuta dagli italiani.
    Non capisco i 5 stelle per il mancato pronunciamento sulla riduzione a 5 anni del diritto alla cittadinanza......
    Ora vado a votare (entro le 11 è meglio).
    WM

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  6. Ho fatto la campagna referendaria per i 5 SI da fuori sede in Veneto..volantinaggi, banchetti ai mercati, assemblee e dibattiti... Volevamo fare un incontro con gli/le student3 delle ultime classi delle scuole superiori (in accordo con rappresentanti di istituto ), ma nessuno degli 8 presidi ha dato l'autorizzazione perché mancavano i rappresentanti del NO.
    Forse la cosa più utile l'ho fatta stamattina al bar vicino al seggio dove sono rappresentante di lista: c'erano 6 pensionate che parlavano di caldo e di zanzare, disinteressate ai referendum sul lavoro "perché pensionate"...ho chiesto di parlarmi de3 loro nipoti.. stage, tirocini e tanti contratti a tempo determinato... Qualcuno con la morosa straniera... Forse ho guadagnato qualche votante in più...
    E comunque quando chi è al potere ti dice di non andare a votare e' proprio quello il momento di farlo.
    MM

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  7. Andrò a votare e voterò 5 SI
    Certamente il rischio del mancato quorum esiste , credo che difficilmente si raggiungerà , servirà comunque la più alta partecipazione possibile, e tanti SI . Sarebbe un ottimo risultato superare i 12 milioni di SI, tanti quanti i voti ottenuti dalla destra alle politiche, sarebbe credo un bel segnale di sfiducia per il governo.
    Sarebbe necessario, qualsiasi risultato esce dalle urne , provare a dare corpo a quella " Rivolta Sociale " dell'amata da Landini ma di cui ad oggi si son perse le tracce , almeno io non me ne sono accorto.
    Il sale di qualsiasi società è è rimane il conflitto. Non bastano i referendum.

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  8. Sarà difficile superare il 50%. Ma la partita va giocata fino in fondo. Il risultato sarà importante.
    L.

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  9. Le partite vanno sempre giocate fino in fondo. Tuttavia fa una certa differenza tra vincere e perdere. E se si perde bisogna pensare a cosa si è sbagliato negli ultimi mesi e anni. Capita raramente.
    m.m.

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  10. "Quelli del si" hanno perso.
    A meno che, non si vinca sempre e l'importante è partecipare.
    Ma così perde la democrazia.....
    PD-mda

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