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Una ragazza alla manifestazione di Bologna del 25 aprile con i colori palestinesi ... |
Non si deve sottovalutare il protagonismo che tante persone hanno mostrato di volere esercitare nelle ultime settimane in occasioni diverse ed anche contrastanti. Manifestazioni locali, nazionali e internazionali, appuntamenti politici, culturali e religiosi. Sono testimonianza di vita, di bisogni e di volontà che accomunano soggetti diversi nell'impegno di non delegare ad altri i problemi, le crisi ed i conflitti del presente.
E' evidente che solo mobilitazioni immediate possono consentire risultati positivi e incoraggianti a favore di classi sociali sfruttate e di popoli oppressi, feriti o minacciati. Vale per operai e lavoratori europei e di ogni continente; vale per ucraini e russi, per curdi e turchi, per israeliani e iraniani, per libanesi e palestinesi. Senza pensiero e progetti globali, senza azioni locali non si fermeranno ingiustizie, violenze e stragi.
E tuttavia questo è anche il tempo che richiede riflessioni e verifiche, analisi approfondite e nuove sintesi. Tutto cambia, è in trasformazione. Dunque urge capire, confrontarsi, adeguare strategie, percorsi, interlocutori, alleanze. Rinunciare a questo impegno significherebbe perdere opportunità, lasciare spazi a conservatori ed avversari, ritardare trasformazioni sociali e conversioni ecologiche mature e irrinunciabili.
Ecco alcuni interessanti contributi. Tra questi Pino Arlacchi scrive de "l'ora più buia per l'Europa", Massimo De Carolis argomenta sul passaggio culturale "dall'egemonia alla società feudale", Elena Basile sostiene che "l'UE non difende i suoi interessi", Stefano Bartolini e Francesco Sarracino indicano che "il disarmo può giovare alla fiducia", Nicola Perugini e Shahd Hammouri propongono "una forza di protezione globale per la Palestina occupata".
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Scrive Pino Arlacchi "l'ora più buia dell'Europa che si riarma" ... (il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2025)
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"Il disarmo, non il riarmo può giovare alla fiducia" ... sostengono Stefano Bartolini e Francesco Sarracino su il Fatto Quotidiano (29 aprile 2025) |
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Per Elena Basile "La Unione Europea non conosce i suoi interessi e non li difende" ... (il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2025)
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Casa Bianca, dall'egemonia al nuovo feudalesimo di Massimo De Carolis
Per quanto possano sembrare imprevedibili e caotiche, le mosse dell’amministrazione Trump hanno mostrato finora almeno un filo conduttore: la tendenza a legare in un nodo sempre più serrato rapporti commerciali e forza militare, affari e bombe. La raffica di dazi ha trasformato l’interdipendenza commerciale in un campo di battaglia, radicalizzando una tendenza a weaponize l’economia mondiale.
Tendenza che era già una costante nella politica americana degli ultimi decenni, quale che fosse il presidente in carica. L’attuale amministrazione ne esaspera i toni e, nello stesso tempo, li accompagna con un messaggio a metà tra il cinico e il rassicurante: che non c’è guerra che non possa risolversi in un accordo mercantile, purché le parti in campo si pieghino al calcolo realistico dei rapporti di forza. E che non c’è quindi nemico che non possa trasformarsi in partner commerciale, quali che siano i crimini contro l’umanità di cui può essersi reso responsabile.
Si attutiscono così, almeno in teoria, le inimicizie assolute del passato. Anche però i vecchi legami di amicizia ne risultano profondamente ridimensionati, come l’Europa sta imparando a proprie spese. Il nuovo quadro non prevede infatti più alleati o amici, ma solo vassalli ai quali elargire protezione a prezzo di usura, in cambio di fedeltà e obbedienza illimitate.
Si può capire che le nazioni europee siano turbate da un mercantilismo a mano armata che le sta relegando a un ruolo di secondo piano, schiacciate tra potenze di dimensioni continentali. Finora però le loro contro-mosse non sembrano ispirate al desiderio di modificare più di tanto il quadro. Alzare drasticamente la spesa militare, accanirsi contro profughi e migranti, posizionarsi in prima linea nell’estrazione e nel saccheggio delle risorse, sono tutte misure che danno per scontata la simbiosi tra forza militare e arricchimento predatorio. E che riducono la coesistenza a una catena di rapporti di dominio, in cui il più debole è costretto alla sottomissione e all’obbedienza. L’Occidente sembra così riportato di colpo al Leviatano di Hobbes, che si concludeva evocando «la mutua relazione tra protezione e obbedienza, di cui natura umana e leggi divine richiedono l’inviolabile osservanza». Eppure, potrebbe rivelarsi un madornale errore confondere il realismo che animava la modernità nascente con il cinismo del suo attuale declino.
Protezione e obbedienza, nelle teorie politiche moderne, non erano invocate per legittimare la legge del più forte ma, al contrario, per annunciarne l’inevitabile trapasso. L’idea era che la violenza distruttiva degli antagonismi feudali non potesse risolversi che nell’emergenza di un potere sovrano, capace di istituire un Commonwealth di cui tutti fossero membri a pari titolo. Ci si aspettava perciò che i rapporti di dominio lasciassero il posto all’ordine civile non per un’esigenza morale, ma perché spinti a questo risultato dal loro stesso automatismo.
Una visione analoga ha ispirato la modernizzazione anche in ambito economico. L’istituzione del mercato era concepita come condizione perché l’egoismo dei singoli fosse spinto da sé stesso a cementare la cooperazione e la prosperità collettiva. Che il progresso economico e civile dovesse abbattere le barriere feudali tra servi e signori era dato per scontato. Solo che il compito non era affidato a un qualche sussulto morale, ma alla logica interna della concorrenza, filtrata dagli automatismi del mercato.
A tenere unito l’Occidente era insomma la convinzione che la forza del sovrano e il calcolo mercantile concorressero, in fondo, ad attutire la brutalità del dominio, sublimandola in relazioni contrattuali, prevedibili e «civili». Una fede discutibile e spesso smentita dai fatti, ma che ha sancito per secoli l’egemonia occidentale. Una sua eco sbiadita aleggiava persino nel programma neoliberale di un «nuovo ordine globale», affidato a pari titolo a mercati e carri armati.
Pur basandosi invece sugli stessi mercati e carri armati, la simbiosi attuale tra politica e affari propone una narrazione del tutto ribaltata, che annuncia una vera e propria rifeudalizzazione dei rapporti sociali. Non si pretende più che i rapporti di dominio si trasfigurino da soli in forme di cooperazione ma si cerca, al contrario, di risolvere ogni cooperazione in relazioni verticali di comando e obbedienza, dominatori e vassalli, signori e servi. Venendo meno così ogni terreno condiviso, il sistema-mondo non è più spinto (fosse anche con la forza) a raccogliersi intorno a un nucleo egemonico. A imporsi, al contrario, è una specie di dominio senza egemonia, che minaccia di disintegrare non solo l’ordine globale, ma ogni genere di corpo collettivo – le alleanze, i mercati, le nazioni – e che spinge ogni singolo attore a concentrarsi sul proprio interesse di parte, rinunciando a ogni cura del mondo nel suo insieme.
Che una risposta tanto ottusa al collasso della globalizzazione non possa che avere effetti devastanti è così evidente, da porre sul tappeto l’urgenza di un nuovo universalismo, una nuova capacità di farsi carico dell’unità del mondo nella sua totalità. Da una tale esigenza è nato il dialogo, del tutto inaspettato, fra l’attivismo dei movimenti e l’universalismo della Chiesa, su temi come la protezione dei migranti, la pace e la difesa della terra come casa comune dell’umanità. Un dialogo che si spera possa rafforzarsi negli anni futuri. E al quale, al momento, le autorità economiche e politiche dell’Occidente sembrano, senza eccezioni, irrimediabilmente sorde.
(il manifesto, 27 aprile 2025)
Una forza di protezione globale per la Palestina occupata di Nicola Perugini e Shahd Hammouri
Nelle ultime settimane sono ricomparse le richieste di dispiegamento di una forza di protezione a Gaza e in Cisgiordania. Sono giunte da operatori sanitari e organizzazioni mediche, da ong palestinesi e da civili arabi. L’anno scorso, anche la Lega araba e le organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto l’invio di una forza di pace a Gaza.
Alla luce della normalizzazione globale del genocidio in diretta e della riluttanza politica ad applicare il diritto internazionale, questa richiesta rappresenta una misura minima per salvaguardare i palestinesi da orrori inimmaginabili.
La richiesta è saldamente fondata sul diritto internazionale. A Gaza, una forza di pace potrebbe portare avanti il dovere degli Stati e delle Nazioni unite di proteggere un popolo che sta affrontando un genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità sotto inchiesta presso la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale. Sia a Gaza che in Cisgiordania, tali forze potrebbero sostenere il processo di cessazione dell’occupazione, come richiesto dall’Assemblea generale delle Nazioni unite e dalla Corte Internazionale di Giustizia.
Tuttavia, la richiesta di una forza di protezione deve affrontare sfide importanti. La domanda cruciale è: possono essere superate?
La giustificazione di una forza di protezione
La situazione a Gaza e in Cisgiordania ha raggiunto un’urgenza e un’estremizzazione senza precedenti. La pressione militare esercitata dai gruppi armati in Libano e nello Yemen nel tentativo di proteggere il popolo palestinese non è riuscita a fermare le atrocità e i popoli libanese e yemenita ha pagato un prezzo pesante.
Ecco perché è urgente una forza di protezione internazionale. Il suo dispiegamento realizzerebbe ciò che la popolazione palestinese chiede alla comunità internazionale: proteggerla. Questa forza servirebbe come «scudo umano» – non nel senso dispregiativo utilizzato dall’esercito israeliano per giustificare il suo genocidio etichettando l’intera popolazione palestinese come scudo umano, ma nel senso di una barriera letteralmente pacifica tra i palestinesi e il loro annientamento.
La sua presenza potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte di massa per i civili che hanno affrontato un anno e mezzo di bombardamenti, assedio e fame.
Inoltre, questa forza offre un’alternativa critica a «soluzioni» più sinistre. Mentre Israele intensifica la sua campagna genocida, imponendo condizioni volte a distruggere la vita dei palestinesi, gli Stati uniti hanno ventilato l’idea di dispiegare le proprie truppe a Gaza per «prenderne il controllo». Questa mossa costituirebbe un’invasione illegale degli Stati uniti in Palestina, rafforzando ulteriormente la violenza coloniale con il pretesto di mantenere la «stabilità». Al contrario, forze incaricate di proteggere i palestinesi – e non gli interessi imperiali e coloniali – potrebbero fornire una contromisura legittima e fondata a livello internazionale.
Le sfide della formazione di una forza di protezione
Il dispiegamento di forze di protezione su mandato delle Nazioni unite richiede una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Gli Stati uniti porranno sicuramente il veto a qualsiasi tentativo di creare una forza di questo tipo, così come hanno bocciato diverse risoluzioni di cessate il fuoco, consentendo di fatto un genocidio e bloccando qualsiasi sforzo per sostenere anche i più elementari principi di umanità previsti dalla Carta delle Nazioni unite.
La situazione sta indubbiamente diventando sempre più disperata sotto un’amministrazione statunitense che sostiene attivamente le espulsioni e le deportazioni di massa della popolazione palestinese da Gaza. Lo stesso presidente degli Stati uniti Donald Trump ha descritto la Striscia di Gaza come un «sito di demolizione» e ha espresso il desiderio che gli Stati uniti la trasformino nella «Riviera del Medio Oriente».
Poiché una risoluzione che richiede una forza di protezione sarebbe bloccata dal Consiglio di Sicurezza, l’alternativa è una chiamata all’azione multilaterale attraverso l’Assemblea generale. Anche in questo caso, il potere coercitivo degli Stati uniti influenza pesantemente i voti – compresi quelli dell’Autorità Palestinese – ma si tratta comunque di un’opzione praticabile. Una mossa del genere potrebbe avvenire non prima della prossima sessione dell’Assemblea generale di maggio e richiederebbe un’immensa pressione diplomatica.
Un voto a favore di una forza di protezione da parte dell’Assemblea non sarebbe vincolante e richiederebbe l’approvazione del Consiglio di Sicurezza. Tuttavia, potrebbe contribuire a creare una coalizione di paesi che segnalino la loro volontà di intervenire con misure di protezione concrete in difesa della vita dei palestinesi dopo 19 mesi di parole vuote senza azioni tangibili.
Un’altra sfida è rappresentata dal fatto che il meccanismo di dispiegamento delle forze di pace è stato a lungo considerato con sospetto dagli Stati del Sud globale – e per una buona ragione. Le truppe di mantenimento della pace delle Nazioni unite sono spesso servite come strumenti di polizia nel Sud globale e come estensione del controllo imperiale, a volte commettendo esse stesse atrocità.
Storicamente, il mantenimento della pace si è in gran parte allineato con gli interessi imperiali, raramente opponendosi ad essi. I paesi che contribuiscono con le truppe hanno spesso alleanze militari discutibili e le operazioni di mantenimento della pace dipendono dai finanziamenti di grandi donatori, come gli Stati uniti. Un buon esempio è la missione di pace Unifil in Libano, che ha una presenza europea insolitamente alta e che non è riuscita a proteggere il sud del paese dall’aggressione di Israele.
Alla luce di tutte queste sfide, dobbiamo rinunciare alla richiesta di una forza di protezione nei territori palestinesi occupati? Assolutamente no.
Una riprogettazione radicale delle forze di protezione
Gli ostacoli sono reali, ma la richiesta di una forza di protezione è legittima. Proviene da diversi settori della stessa società palestinese ed è sostenuta a livello globale da individui e gruppi antigenocidio.
In una recente petizione, operatori sanitari palestinesi e internazionali hanno proposto un modello: una missione protettiva neutrale e multinazionale – non per mediare, ma per proteggere. Le loro richieste includono l’esclusione delle nazioni complici dell’aggressione dall’apporto di truppe e il mandato alla forza di protezione di proteggere fisicamente i civili palestinesi e gli operatori sanitari, per ristabilire corridoi umanitari e medici sicuri e sostenere la ricostruzione a guida palestinese delle infrastrutture annientate di Gaza. Allo stesso modo, la Rete delle ong palestinesi ha chiesto la protezione internazionale, l’apertura dei valichi verso Gaza e la garanzia di corridoi sicuri per gli aiuti.
Nel frattempo, i civili egiziani hanno ripetutamente dichiarato di essere pronti a entrare a Gaza come forza di protezione civile in caso di apertura delle frontiere. Ciò sottolinea il potenziale di protezione alimentato dalle persone, accanto ai meccanismi formali.
Per tradurre in azione questi molteplici appelli, è necessario ripensare radicalmente l’aspetto e il funzionamento di una forza di protezione.
In primo luogo, è necessario che gli Stati non coinvolti nel genocidio e i gruppi della società civile spingano per aggirare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite. Devono concentrare tutti gli sforzi e l’influenza sulla sessione speciale di emergenza dell’Assemblea generale dell’Onu che si terrà a maggio, per resistere alle pressioni degli Stati uniti e spingere per un voto su un mandato di mantenimento della pace.
In secondo luogo, abbiamo bisogno di nuove alleanze Sud-Sud. Significa partenariati strategici tra le nazioni del Sud globale non coinvolte nel genocidio per finanziare e fornire personale a una missione libera da influenze imperiali, che possa procedere anche senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.
In terzo luogo, abbiamo bisogno di una mobilitazione senza precedenti della società civile in un’unica direzione: fare pressione sui governi affinché sostengano e partecipino a una forza di protezione veramente neutrale.
Gli Stati uniti si opporrebbero alla creazione di nuove coalizioni che mettano al centro la vita dei palestinesi e si presentino come i campioni meridionali della dottrina della responsabilità di proteggere. Vedrebbero in ciò una sfida alla loro egemonia e al monopolio occidentale del discorso sull’antigenocidio e userebbero il loro veto in seno al Consiglio. Tuttavia, i paesi e i gruppi della società civile coinvolti nella creazione della forza di protezione dovrebbero ignorare il veto, formare la missione in modo autonomo e sfidare l’ordine internazionale genocida in cui viviamo.
Le sfide che questo sforzo di re-immaginazione radicale deve affrontare sono formidabili. Ma l’alternativa è continuare a lasciare le vite dei palestinesi senza protezione, alla mercé di un processo di sterminio coloniale sempre più intenso. Dobbiamo agire ora e spingere per una forza di protezione per la Palestina occupata.
(il manifesto, 30 aprile 2025)
Ecologia integrale. L'eredità del papa.
I quattro punti cardinali per una transizione giusta di Livio De Santoli
Per capire fino in fondo l’opera rivoluzionaria di Papa Francesco occorre riferirsi al significato profondo di ecologia integrale. Ambiente, società, economia, cultura, politica sono tutti aspetti di un unico grande tema che non può essere considerato per parti distinte. Ad esempio, l’affermazione: «Le ragioni per le quali un luogo viene inquinato richiedono un’analisi del funzionamento della società, della sua economia, del suo comportamento, dei suoi modi di comprendere la realtà» (n.129 dell’Enciclica Laudato Si), implica una attenzione al tutto, in netto contrasto con la parcellizzazione novecentesca delle competenze e delle azioni. La frammentazione del sapere semplifica e non assolve la sua funzione trasformatrice.
Nell’Esortazione Laudate Deum, otto anni dopo Laudato Si, Papa Francesco fa un bilancio di un pianeta sempre più sofferente e delle inascoltate esortazioni per la cura della «nostra casa comune». La transizione «giusta» chiedeva una energia finalmente pulita e distribuita, capace di occuparsi di giustizia sociale in un modello in cui anche l’energia potesse essere, con la sostituzione «senza indugio» delle fonti fossili con le fonti rinnovabili, accessibile a tutti. Una strada ancora troppo piena di ostacoli.
Egli dice che il cambiamento climatico non è solo quello che descrivono gli scienziati, ma è un problema sociale globale relativo alla dignità della vita umana, perché «la nostra cura per l’altro e la nostra cura per la Terra sono intimamente legate».
Il cambiamento climatico è la grande sfida della società contemporanea che presuppone modalità radicalmente diverse: gli effetti del cambiamento climatico sono subiti dalle persone più vulnerabili, i poveri, i rifugiati ed i migranti e confermano come il degrado ambientale è soprattutto degrado sociale. E’ possibile elencare i caratteri per vincere questa sfida.
Punto 1, l’economia. Le responsabilità del neoliberismo sul degrado del pianeta sono note. Esso sostiene che il mercato offre dei vantaggi che non potrebbero mai essere offerti dalla pianificazione dell’economia. La competitività viene messa a servizio del profitto. La disuguaglianza quindi diventa una caratteristica accettabile, perché il mercato premia pochi individui, e ne trascura tanti. Ma liberarsi da questo modello può essere fatto solo in una visione integrata, dove la «nostra casa comune», vero senso dell’interesse verso il bene comune, si contrappone al profitto fine a se stesso. Il Papa diceva spesso che la crescita economica, se non accompagnata da giustizia, non può essere definita sviluppo.
Punto 2, il lavoro. Papa Francesco crede che milioni di persone perderanno il lavoro a causa delle varie conseguenze del cambiamento climatico, altro che per la crisi di occupazione fossile; che il clima non è una questione che interessi ai grandi potentati sempre più feudali, che si preoccupano di ottenere il massimo profitto al minor costo e nel minor tempo possibile; che esista una stretta relazione tra la vita dell’uomo con quella dei suoi simili e con l’ambiente: «Tutto è collegato» e «nessuno si salva da solo».
Punto 3, la cultura. L’attacco più forte riguarda il paradigma tecnocratico che è alla base dell’attuale processo di degrado del pianeta e che tende ad esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica. Un modo di pensare che implica l’idea di una crescita illimitata, perché «l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza». All’uomo contemporaneo è venuta meno un’etica adeguata, una cultura e una spiritualità del limite che «lo contengano entro un lucido dominio di sé». L’insistere di Bergoglio sulla concentrazione di ricchezza in poche mani ha evidenziato la necessità di una economia sociale di mercato solo se vista come dimensione della vita essenziale per ogni bene comune, senza predazione e sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente.
Infine, punto 4, la politica. L’enciclica Fratelli tutti è per il cardinale Ravasi la summa dell’azione pastorale di Bergoglio, che invita la politica ad un impegno verso la cura del bene comune, il vero lascito spirituale della sua opera. Riprendendo Laudato Si, occorre combattere «le ombre di un mondo chiuso», quello di un pianeta e di una epoca in difficoltà, dove sotto i colpi dei nazionalismi e dei sovranismi è crisi di democrazia, di libertà, di giustizia. Esempio spesso riportato da Francesco, è la presenza di conflitti regionali, «terza guerra mondiale a pezzi», ormai considerati come inevitabili nella nostra quotidianità fatta di paure e di miserie. La politica deve propugnare la pace: la pace è condizione necessaria per la libertà, la democrazia, il lavoro.
Se la scelta non è etica, non è una scelta. Scegliere di prendersi cura dei beni comuni è una scelta etica che trae origine dall’idea di comunità e appartenenza. Papa Francesco ci insegna anche che non c’è cambiamento senza impegno, nel significato etimologico di comunità, e non c’è speranza senza consapevolezza di una scelta responsabile. Perché la libertà non è una condizione data, ma qualcosa che si conquista attraverso la scelta giusta.
(l'ExtraTerrestre, 1 maggio 2025)
L'occasione dei referendum: una proposta per rompere il silenzio di Luigi Ferrajoli
La destra ha deciso di sabotare i cinque referendum abrogativi dell’8 e del 9 giugno. Di questi referendum i giornali non parlano, su di essi le televisioni non informano, i dibattiti pubblici li ignorano. L’obiettivo delle destre è il loro fallimento.
Il successo dei referendum dipende infatti dal raggiungimento del quorum, cioè dal fatto che vadano a votare almeno la metà degli elettori. La destra punta sull’astensionismo, sull’apatia, sull’egoismo, sull’indifferenza morale, sul disimpegno civile, sul disinteresse politico delle persone per problemi che direttamente non le riguardano.
Eppure si tratta di cinque quesiti la cui condivisione è una scelta di civiltà. Sono tutti quesiti sull’uguaglianza, o meglio sulla riduzione delle disuguaglianze e delle discriminazioni. Il referendum sull’abbassamento da 10 a 5 anni del tempo di residenza legale in Italia necessario a ottenere la cittadinanza, vale a ridurre le disuguaglianze formali, di status, abbreviando i tempi nei quali i migranti sono non-persone, esclusi anziché inclusi nella nostra società. È un referendum contro il razzismo, contro l’esclusione, contro le paure, contro le diffidenze e le ossessioni identitarie, sulle quali le nostre destre hanno speculato, ottenendo consenso alle loro politiche disumane e così abbassando il senso morale dell’intera società.
I referendum sul lavoro, per la cui promozione dobbiamo essere grati soprattutto alla Cgil, sono diretti a ridurre le disuguaglianze sostanziali tra i lavoratori generate dalla precarietà e dalla potestà di licenziare. Sono referendum contro l’arbitrio, per la sicurezza contro gli infortuni e a sostegno della dignità del lavoro. Sono contro leggi che hanno distrutto l’uguaglianza nei diritti dei lavoratori, e con essa la solidarietà sulla quale si basava la soggettività politica del movimento operaio. Privando i lavoratori dei loro diritti e mettendoli in concorrenza tra loro, queste leggi hanno ridotto i lavoratori a merci. Hanno ribaltato la direzione del conflitto sociale: non più verso l’alto, ma verso il basso, nei confronti dei migranti e dei devianti di strada; non più contro le disuguaglianze ma contro le differenze – di nazionalità, di religione, di sesso, di condizioni economiche e sociali.
Sono tutti, questi referendum, altrettanti quesiti sul nostro grado di adesione e di condivisione della nostra Costituzione. Giacché tutti sono a sostegno dei fondamenti della Repubblica scritti nei primi articoli della nostra carta costituzionale: il lavoro, la dignità, l’uguaglianza di tutte le persone solo perché tali, siano esse migranti o lavoratori.
Soprattutto, questi referendum abrogativi non equivalgono a una qualsiasi votazione. Con essi non ci si limita a votare su chi ci governerà. Il voto nei referendum non equivale a una delega, ma a una concreta decisione destinata a migliorare la vita di milioni di persone. Rispondendo “Sì” ai quesiti referendari, i cittadini decidono, direttamente e personalmente, su questioni di fondo.
Operano una scelta per l’uguaglianza e contro il razzismo, le discriminazioni e lo sfruttamento. Fanno un passo nel senso dell’attuazione della nostra Costituzione. Difendono, con la dignità di migranti e lavoratori, la dignità di tutti noi.
Per questo è necessaria una mobilitazione dell’intero elettorato democratico diretto a indurre la maggioranza della popolazione ad andare a votare. Per questo, al silenzio-stampa e alla disinformazione con cui le destre intendono far fallire i referendum, è giusto opporre una risposta civile e di sicuro impatto mediatico. Tutti gli esponenti dell’opposizione – dal partito democratico ai Cinque Stelle, da Alleanza Verdi e Sinistra ai centristi antifascisti – tutte le volte che, in occasione dei telegiornali, vengono interpellati sulle svariate questioni del giorno, dovrebbero utilizzare questi brevi spazi di comunicazione per invitare le persone ad andare a votare. Dovrebbero trasformare le battute rituali ed inutili, che sono loro richieste, in informazioni sui contenuti dei referendum e in inviti ad andare a votare. Dovrebbero farlo in maniera apertamente provocatoria, ostentando la totale incongruenza di questi inviti con la questione sulla quale, volta a volta, vengono interpellati. Proprio perché la destra controlla la Rai e gran parte della stampa, proprio perché punta sull’ignoranza e la disinformazione, è necessario che quanti vengono intervistati su qualunque problema mostrino di voler far uso dei brevi spazi di comunicazione loro concessi per dire: «L’8 e il 9 giugno andate a votare nei referendum».
Un successo di questi referendum abrogativi equivarrebbe a un risveglio della ragione e, soprattutto, della coscienza democratica del nostro paese. Varrebbe a bocciare non solo le pessime leggi sottoposte ai quesiti referendari, ma l’intera politica di questo governo, illiberale e antisociale, e la sua penosa istigazione all’astensione e al qualunquismo. Rifonderebbe la fiducia nella democrazia. Restituirebbe vigore e vitalità alle nostre malandate istituzioni. Suonerebbe come un appello all’unità delle forze di opposizione e a un atto radicale di sfiducia popolare, e virtualmente di sfratto, nei confronti di questa destra al governo. È un’occasione storica irripetibile: la possibilità di una svolta, di un’inversione di rotta della nostra politica. Spetta a tutti noi non perdere questa occasione.
(il manifesto, 1 maggio 2025)
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Dopo l'interruzione di energia elettrica avvenuto nella penisola iberica la scorsa settimana "saltare alle conclusioni, screditando fotovoltaico ed eolico, è scorretto" ... sostiene Luca Mercalli (il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2025)
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Bologna, aprile e maggio 2025
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Piazza del Nettuno, 21 aprile, ore 10. Corone al Sacrario dei Caduti Partigiani per l'80esimo della Liberazione ...
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La cronaca del 21 aprile 2025 su la Repubblica Bologna ... (22 aprile 2025)
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Scrive il Corriere di Bologna sull'80esimo ... (22 aprile 2025)
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Per il Carlino "L'anniversario tra bandiere e medaglie: ancora qui" ... (22 aprile 2025) Su guerre, contraddizioni e conflitti di oggi, zero titoli.
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Il 25 aprile sulla prima pagina del Corriere di Bologna... (26 aprile 2025)
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La cronaca e gli spazi sulle pagine interne del Corriere ... (26 aprile 2025)
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L'articolo e le polemiche sul corteo "per la pace e la Palestina" ... (il Corriere di Bologna, 26 aprile 2025)
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La prima pagina di la Repubblica Bologna con foto di Piazza del Nettuno e di Monte Sole ... (26 aprile 2025)
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Le pagine interne ... (la Repubblica Bologna, 26 aprile 2025)
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Sugli "antagonisti in corteo" dalla Bolognina al Fratello ... (la Repubblica Bologna, 26 aprile 2025)
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Su Carlino Bologna Matteo Lepore, Galeazzo Bignami e Alessandro Bergonzoni ... (26 aprile 2025)
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Nelle pagine interne del Carlino: "la festa macchiata ... una Liberazione poco sobria ... imbrattate le strade" (26 aprile 2025) Quando i giudizi e la propaganda di parte prevalgono sui problemi, le idee, le risorse ... |
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Anteprima del 1 maggio sul Corriere ... (30 aprile 2025)
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Sul Corriere di Bologna intervengono l'Assessore regionale Giovanni Paglia e il Sindaco Matteo Lepore ... (1 maggio 2025)
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Il giorno dopo sulle pagine nazionali di la Repubblica le piazze d'Italia sono ridotte a "molestie di un gruppo al Concertone: un incubo, nessuno mi ha difeso ... (3 maggio 2025) |
Faccio una critica.
RispondiEliminaSpero costruttiva perché apprezzo il tuo impegno e vorrei fosse utile come strumento continuo di informazione e di confronto. Infatti considerare questo blog un archivio (come qualcuno mi ha detto) mi pare davvero riduttivo.
Io trovo un limite che documentazione (i "contributi" come li chiami tu) e commenti (tuoi) non siano cadenzati, certi, scanditi quotidianamente o periodicamente. Insomma non escono con regolarità. Un lettore "fedele" non sa quando li può trovare. Tenta, magari per due, tre, quattro giorni e non ci sono. Poi, eccoli quando ci hai rinunciato....
Proposta: perché non avere un giorno fisso? Il sabato (o il lunedì) di tgcoop? Così da garantire un appuntamento per gli interessati. E valorizzare il prezioso lavoro.
Ciao!
Mi piace la proposta di protezione internazionale dei territori palestinesi occupati. Gaza e pure Cisgiordania. La considero una indicazione per cui battersi, senza armi e con i corpi di autorità internazionali e di volontari non violenti.
RispondiEliminaRicordo anche le manifestazioni di venerdì prossimo, 9 maggio.
Per Bologna alle 18 da piazza Venti Settembre.
Titti