Ma per quale segreta ragione il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, ha fretta di concludere l’accordo con le altre due regioni, Veneto e Lombardia? È vessato da uno stato accentratore, è privato di risorse per la sanità o per la scuola, come accade al esempio, drammaticamente e ormai da anni, alla Calabria e ad altre regioni del Sud? Non è Bonaccini, oltre che presidente di una regione che per decenni ha vantato la più elevata tradizione civica d’Italia, un uomo politico del Pd? Ma allora siamo costretti a continuare con le domande: che partito è il Pd, perché tace sulla fretta di Bonaccini?
Non è evidente che la spinta a concludere l’accordo secessionista tra le tre regioni e il governo si configura come un’opera di fiancheggiamento della Lega, destinata peraltro a mettere in difficoltà i 5S? Lavora evidentemente per Salvini?
ORA, È VERO CHE le rivendicazioni autonomistiche dell’Emilia Romagna sono più contenute di quelle delle altre due regioni, ma la pressione di Bonaccini in questo momento non ha altra funzione che di portare al più presto a compimento l’intera l’operazione. A tal proposito, bisogna svolgere un paio di considerazioni. I documenti segreti relativi ai primi accordi tra le regioni suddette e il governo sono inquietanti. Le pretese del Veneto sono debordanti e sembrano puntare alla formazione di un piccolo Stato. Manca solo la figura del Doge da mettere a capo della Repubblica veneta ...
dove soprattutto la scuola diventa oggetto di uno stravolgimento grave, che spezza la coerenza formativa dei cittadini italiani, e sottopone il libero insegnamento al controllo del ceto politico regionale.
Ma oltre ai contenuti, inquietante è anche la forma, sono le modalità. Com’ è possibile che una riforma destinata a cambiare profondamente l’assetto istituzionale dello stato, la forma della Repubblica, sia discussa in forme semiclandestine, nel tentativo evidente di nascondere il contenuto reale di ciò che è in gioco, facendo soprattutto in fretta? Quella fretta che agita il presidente Bonaccini?
Non bisognerebbe, al contrario, coinvolgere largamente l’intera opinione pubblica nazionale e dunque prendersi il tempo necessario? Ora la superficialità, quando non l’indifferenza, della grande stampa e della Tv pubblica di fronte alla grave minaccia di frantumazione dell’Italia repubblicana, sono lo specchio inquietante di una classe dirigente nazionale smarrita, che non ha più alcun progetto per il Paese.
Eppure, mentre i secessionismi infuriano ovunque, costituiscono la dinamica che sta lacerando da tempo tante nazioni e territori in Europa e nel mondo, l’Italia – che ha conosciuto la subalternità allo straniero dovuta alla divisione interna e dovrebbe possedere buoni anticorpi – gode di condizioni storiche vantaggiose: non ha al suo interno enclave religiose o etniche. Non a caso Bossi aveva cercato di inventarsene una «celtica». Dunque solo l’egoismo regionale, aizzato da un gruppo estremista e cinico che ha fatto le proprie fortune personali su rivendicazioni autonomistiche e campagne di odio, mette in pericolo l’unità della Repubblica. Quell’unità necessaria anche per non stare in Europa in ordine sparso.
EBBENE, TORNIAMO AL PD. È ancora un partito o un aggregato di cacicchi, dotati di autonomo dominio territoriale? Non ha nulla da dire il suo segretario, Nicola Zingaretti, su Bonaccini che lavora e preme oggettivamente perché si attuino i disegni della Lega? Di fronte a questo atteggiamento sgembo e secessionista del presidente dell’Emilia, il quale coinvolge quel partito che sino a poco tempo fa era la maggiore forza di centro-sinistra, che cosa hanno da dire tanti dirigenti, parlamentari ed ex parlamentari? Dov’è la voce di Gianni Cuperlo, di Mario Tronti, di Walter Tocci, di Fabrizio Barca e di tanti altri intellettuali che nonostante tutto (nonostante siano rimasti in un partito che ha tradito classe operaia e ceti popolari) hanno avuto a cuore, sino ad ora, l’unità della Repubblica?
Piero Bevilacqua, il manifesto, 12 luglio
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