La maglia con il volto di Julian Assange ad una manifestazione per la pace in Ucraina ... |
Sabato scorso, mentre Prigožin marciava verso Mosca, ho proposto ad alcuni colleghi di fare le valigie e partire assieme per Rostov. Si sarebbe trattato – se la Wagner non avesse fatto così rapidamente dietrofront – di raccontare lo sfacelo del fronte interno putiniano, gli incubi della popolazione civile e la crescente sfiducia nei confronti della guerra. Avremmo confezionato, insomma, il classico reportage di cui il Cremlino avrebbe volentieri fatto a meno.
A qualcuno l'idea era piaciuta, ad altri un po’ meno. Ciò che mi è sembrato paradossale, tuttavia, è che quasi tutti i colleghi che si sono tirati indietro lo hanno fatto non per paura dei russi, ma nel timore di fare uno sgarro a Kiev: «Io a Rostov ci verrei anche – è stata la risposta-tipo – ma ho appena inoltrato la richiesta per il nuovo accredito militare ucraino, e voglio essere sicuro di non avere grane».Nel febbraio scorso, quando per il solo fatto di essere andati a sbirciare ciò che accadeva “dall’altra parte”, con Alfredo Bosco e altri colleghi fummo privati delle credenziali giornalistiche, si scrisse che quel provvedimento colpiva non soltanto noi, ma, in generale, tutti i reporter che stavano raccontando il conflitto.
Oggi la veridicità di tale affermazione appare più che mai evidente: andare in Russia non è mai stato esplicitamente vietato da nessuno – nemmeno dai rigidissimi press officer di Kiev – ma lo spauracchio della museruola mediatica è talmente vivido che in molti, ormai, tendono a essere più realisti del re. Discostarsi pur solo minimamente da quella che si ritiene essere la “linea ufficiale” del governo Zelens’kyj – fosse anche per gettare uno sguardo critico oltrefrontiera – è quasi diventato un tabù.
Così, tra bavagli e auto-bavagli, la cronaca della guerra rischia di appiattirsi più che mai al livello di comunicati stampa e veline. Pochi giorni fa, sul giornale statunitense The Intercept, è uscito un lungo e documentatissimo articolo a firma di Alice Speri, dal titolo «L’Ucraina blocca i giornalisti in prima linea con una crescente censura». Il quadro che ne emerge è a dir poco inquietante: «È assurdo quanto poco di ciò che sta accadendo venga raccontato – ha dichiarato Luke Mogelson, collaboratore del New Yorker -. E il motivo principale, anche se non l’unico, è che il governo ucraino ha reso praticamente impossibile per i giornalisti fare veri reportage in prima linea».
Tra coloro che negli ultimi mesi si sono visti revocare o negare gli accrediti – o perlomeno sono stati minacciati in questo senso – vi sono diversi cronisti di Nbc News, The New York Times, Cnn e The New Yorker, oltre ai loro colleghi dell’emittente digitale di Kiev Hromadske. «Le autorità consentono solo tour con addetti stampa, i quali si mettono in mostra davanti alla telecamera e hanno paura di mostrare la situazione reale», ha scritto su Instagram il celebre fotografo ucraino Maxim Dondyuk.
La "colpa" di Mogelson e Dondyuk sarebbe quella di aver realizzato, nel maggio scorso, un vividissimo reportage dalle prime linee di Bakhmut, muovendosi con il permesso del comandante di battaglione ma senza il benestare del ministero della Difesa: a entrambi, dopo la pubblicazione dell’articolo, è stata preannunciata la revoca delle credenziali giornalistiche.
Chi le credenziali le ha perse sul serio – per poi recuperarle – è stato il giornalista del New York Times Thomas Gibbons-Neff, “reo” di aver documentato l’utilizzo da parte delle forze armate di Kiev di bombe a grappolo vietate dalle convenzioni internazionali.
Un altro caso emblematico è quello del fotoreporter ucraino Anton Skyba, che da nove anni lavora per il giornale canadese The Globe and Mail. Originario del Donbass, nel 2014 Skyba è stato arrestato e torturato dai separatisti filorussi, dopodiché è riuscito a riparare dall’altra parte della frontiera e ha documentato le prime fasi dell’invasione putiniana.
Nell'aprile scorso, in vista della scadenza del suo accredito militare, il reporter è stato convocato per due volte in un ufficio dei servizi segreti di Kiev, dove alcuni ufficiali lo hanno tacciato di collaborazione col nemico: «Non siamo sicuri che il tuo lavoro sia allineato con gli interessi nazionali dell’Ucraina», gli hanno detto. Invitato a sottoporsi a un test con la macchina della verità, Skyba è stato accusato – falsamente – di possedere un passaporto russo e di aver eseguito diverse “missioni” a Minsk. Ci sono volute settimane – e un’intensa campagna internazionale di protesta – perché il caso venisse chiuso e il fotografo potesse riottenere le sue credenziali.
Del resto, che tra la stampa e il governo Zelens’kyj non corra proprio buon sangue lo ha denunciato nero su bianco anche la European Federation of Journalists, che a fine 2022 ha bollato la prima bozza del nuovo disegno di legge ucraino sui media come «degna dei peggiori regimi autoritari».
Ne sa qualcosa la celebre giornalista danese Matilde Kimer, già corrispondente a Mosca per Danmarks Radio, i cui reportage dalla Russia le sono costati prima l’espulsione dal Paese per ordine del Cremlino e poi l’annullamento degli accrediti militari da parte delle autorità di Kiev. Secondo queste ultime – per il solo fatto di aver calcato il suolo moscovita – Kimer sarebbe una promotrice di “narrazioni russe”, mentre la sua cacciata dalla terra degli zar è stata bollata come una semplice “mossa di copertura”.
«L’ufficiale dei servizi che mi interrogava ha detto che per riconsiderare la mia posizione avrebbe avuto bisogno di “argomenti seri” – ha dichiarato la reporter -. Mi ha suggerito di scrivere “buone storie” sull’Ucraina, e si è offerto di passarmi alcuni documenti prodotti dai suoi uomini che avrebbero potuto aiutarmi in tal senso».
Ovviamente Matilde Kimer si è rifiutata di fare da passacarte degli 007 e ha deciso di denunciare pubblicamente l’intera vicenda, che alla fine – grazie al solito clamore mediatico – si è in qualche modo risolta.
Non c’è da stupirsi, tuttavia, che in un clima del genere molti giornalisti «stiano scegliendo di ridimensionare le proprie critiche», come denuncia il direttore di Hromadske Radio, Kyrylo Loukerenko. Sei indeciso se raccontare o meno una storia? Non sai se andare in un determinato posto – in Russia, ad esempio – oppure startene a casa? Nel dubbio, meglio scegliere la seconda ipotesi, affidarsi sempre ai press officer e attenersi alle narrazioni ufficiali. Questa, in un domani non lontano, potrebbe diventare la regola. E a farne la spese, oltre ai cronisti, sarà soprattutto l’opinione pubblica.
Andrea Seresini, il manifesto, 1 luglio 2023
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