giovedì 22 luglio 2021

Un "ascensore sociale" se è per pochi non è tale

Sport e non solo. Gli "azzurri" dopo il successo di Wembley sull'Inghilterra. Il messaggio di Draghi. 










Passata l’ubriacatura degli Europei di calcio, ci accingiamo a vivere un altro evento globale in cui le tinte nazionali ci faranno gioire dietro ai nostri atleti, le olimpiadi, in cui emergeranno le storie di quei pochi che nel successo sportivo trovano il coronamento dell’impegno di una vita. «Lo sport è un ascensore sociale», ha affermato Mario Draghi il 12 luglio, salutando gli atleti azzurri a Palazzo Chigi: un’affermazione che non ha ricevuto commenti sui media (se non quello di Raffaele Ventura su Domani), forse perché è parsa ovvia, rimarcando qualcosa in cui tutti credono. Ma è proprio vero che lo sport consente di salire i gradini della scala sociale? 

Nelle società moderne, la pratica sportiva – un tempo passatempo riservato alle élite – è divenuta fenomeno di massa con il benessere economico e l’invenzione del tempo «libero» che si sono accompagnati all’aumento del reddito. Lo sport – inteso come gioco – ha mantenuto una sua diffusione come momento ludico collettivo, divenendo però vieppiù «spettacolo». E, nell’affermarsi del capitalismo consumista, lo sport e il «divertimento» si sono fatti «show business» né più né meno di quanto nell’antica Roma facevano già il «panem et circenses», da offrirsi alle masse. Per poi venire ingoiati dallo «star system» che ora lo caratterizza.

Da sempre, in Europa come in America Latina, per i milioni di ragazzi che giocano a «pallone», la prospettiva di diventare un «campione» ha fatto parte dell’immaginario collettivo. Per quelli che hanno avuto la fortuna di venire adocchiati da un talent scout, finendo poi a giocare in una grande squadra, ciò ha significato un «salto» di proporzioni inimmaginabili. Per loro, certo, il calcio è stato un «ascensore sociale». «Epiche» sono le storie che raccontano i tanti giocatori di «umili origini» che sono divenuti leggenda, alimentando il sogno.

Quei ragazzi dalle facce antiche e ruvide indicavano che anche chi veniva dalla provincia poteva diventare «grande», essere famoso, pur provenendo dal «nulla». Sono tanti i personaggi, noti e meno noti, la cui storia è una parabola di promozione sociale. Come Rubens Fadini, il più giovane tra i calciatori del grande Torino deceduti a Superga, che veniva da una famiglia di braccianti del ferrarese (di cui racconta un recente bel libro di Stefano Muroni, edito da Pendragon). Come Gigi Meroni, morto troppo giovane, orfano e «artista della palla». Come «Pietruzzu» Anastasi, siciliano, come Antonello Cuccureddu, venuto dalla Sardegna, che firmò, a tre minuti dalla fine, la rete che portò in vantaggio la Juventus, mentre il Milan perdeva 5 a 3 a Verona, facendole vincere il suo 15° scudetto, il 20 maggio 1973. C’è in quel nome, Cuccureddu, in quel volto, tutta la storia del «riscatto» – dal profondo sud alla Torino industriale – favorito dallo sport, la «grande Juve» che vince grazie al suo figlio del popolo.

E, però, ciò non toglie che per dieci, cento grandi campioni, ve ne siano sempre stati mille, diecimila che grandi campioni non sono diventati e non per mancanza di «talento». Certo, la selezione fa parte del gioco. Le «star», però, devono essere in numero limitato per poter essere tali.

Lo «show business» sportivo si è oggi dilatato, fagocitato dalla sua stessa popolarità, e si è fatto industria. Per mille praticanti, uno ce la fa. La ricaduta «sociale» dello sport come attività economica non è certo aumentata quanto il numero di atleti attivi. C’è molto più «giro d’affari» oggi intorno allo sport – che dà da mangiare a molte migliaia di persone – che non atleti.

Oggi, lo «star system» ha investito tutte le discipline sportive e non basta il talento per avere successo. Per quei pochi che da un campetto dietro alla parrocchia o su un campo sterrato tra i banani finiscono a giocare a Wembley ce ne sono milioni che potranno solo sognarlo. Lo «star system», tuttavia, non è quello che si può indicare come un veicolo di promozione sociale, con tutte le distorsioni cui è soggetto, le cui logiche non sono nemmeno guidate dalle banali leggi del mercato in un’industria, quella del divertimento, tra le più disuguali. Additare lo sport come «grande ascensore sociale» non è solo fuorviante ma finisce per essere, come si dice, «diseducativo». Cimentatevi, ragazzi, in qualcosa in cui le probabilità di farcela sono dello zero virgola e qualcosa ne verrà, che così teniamo in piedi uno dei business più iniqui del pianeta. Intanto, le vostre chance migliori, nei campi più vari, verranno gettate al vento, perché di voi la società non saprà che farsene.

Quell’ascensore, lo sappiamo, ha capienza molto limitata e per le migliaia che vorrebbero salirci sopra è più che altro un miraggio. E non solo, si badi bene, per gli ovvi meccanismi della selezione dei migliori, ma perché questa nostra società contemporanea da tempo si è fatta più «stratificata», divisa in compartimenti stagni, tra i quali le vie di comunicazione sono quanto mai occluse, esasperate dallo «star system» che – premiando le super-star, i divi, i super manager – è divenuto la caratteristica più evidente, estrema e «plastica», del capitalismo predatorio. Ed è per questo che il messaggio di Draghi rischia di trasformarsi nel suo contrario, legittimando una società profondamente iniqua.

Pier Giorgio Ardeni, il manifesto, 22 luglio

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